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 2012  giugno 16 Sabato calendario

“Il Grande Torino, quello era un romanzo” - Novantasei anni il 6 luglio. Più tre rispetto ai gol segnati in serie A da Valentino Mazzola, il capitano di Torino delle meraviglie , la favolosa cronaca che Manlio Cancogni ha da poco scodellato (come un cross, nel linguaggio d’antan

“Il Grande Torino, quello era un romanzo” - Novantasei anni il 6 luglio. Più tre rispetto ai gol segnati in serie A da Valentino Mazzola, il capitano di Torino delle meraviglie , la favolosa cronaca che Manlio Cancogni ha da poco scodellato (come un cross, nel linguaggio d’antan...). A Marina di Pietrasanta, l’amico di Cassola giorno dopo giorno si avvicina al secolo, ordinando le trascorse, mai ingiallite carte, di tanto in tanto estraendo dal baule un bagliore: come il granata esercizio di ammirazione, come (usciranno in autunno per Elliot) gli elzeviri «leo- pardiani», investigando il carattere degli italiani, apparsi su «La Fiera Letteraria» che lo ebbe come direttore. E’ un’energia vivissima, Cancogni, contemporaneo di mille stagioni, cocciuto come un fanciullo, il remoto eppure mai tramontato se stesso di un racconto di chissà quando: «Avevo un gran bisogno di quella palla. Era inutile che il babbo e la mamma mi facessero altri regali. Ciò di cui avevo bisogno era quella palla di gomma, color vino, che costava due lire e cinquanta». Rievocando il Grande Torino, Cancogni dribbla Sivori e Borges. Che meraviglia. Non manifestava forse, Jorge Luis, di avere in gran dispitto il football? Non gli replicava a gamba tesa Omar: «Ma che cosa può capire un orbo?». Il testimone versiliano li disorienta «ritrovando» il cieco di guerra in tribuna, tifoso del Torino, a cui l’accompagnatore, «con la precisione di un radiocronista», raccontava la partita: «... e lui, fissando gli occhiali neri sul campo, pareva non perdesse una fase». Il calcio. Sono in corso gli Europei... «Ricordo altri Europei. Di atletica. Stoccolma 1958. Mi capitava allora, d’estate, verso mezzogiorno, di incontrare il direttore de La Stampa Giulio De Benedetti. A metà strada, tra Fiumetto, dove abito, e Le Focette. Gli dissi dell’intenzione di andare in Svezia. Mi commissionò alcuni articoli. Osservai che le svedesi iniziano prestissimo a essere belle, a tredici, a quattordici anni, creature già complete e perfettamente consapevoli di sé. A mancare sono invece le belle donne. Le fanciulle in fiore intorno ai vent’anni si impastano, smarriscono ogni attrattiva. De Benedetti pubblicò le corrispondenze facendole precedere da un distico. Avvertiva che le mie erano opinioni personali. Pure sulle svedesi La Stampa aveva una sua linea...». E gli Europei di atletica? «Un trionfo, per noi. Gli inglesi, i miei inglesi, vinsero sette medaglie d’oro». Torniamo al football? Sono scarse le prove narrative che ispira. «Azzurro tenebra» di Giovanni Arpino... «Arpino, ne ho ammirato l’indipendenza. E Gianni Brera. I suoi colleghi lo adoravano. Era un letterato, certo, che a volte si atteggiava a letterato. Quando era in viaggio si immergeva in Verlaine o in Rimbaud». Quando lo conobbe? «A Torino, nel 1951. Eravamo seduti accanto, sotto il ring dove Sugar Ray Robinson, il più grande pugile di sempre, abbatté Delannoit». La boxe. Da Orio Vergani, «Io povero negro», a Hemingway, a Norman Mailer, cronista del match 1976 Clay-Foreman, ha calamitato numerosi scrittori... Manlio Cancogni sport «Vero. E’ lo sport più artistico e più drammatico. Praticato da gente destinata alla rovina. E’ l’unica disciplina il cui obiettivo è far male. Il pugile eccelso vuole uccidere l’avversario. Lo stesso istinto criminale alligna negli spettatori. Forse io stesso una volta incalzai: “Uccidilo!”». Hemingway ripreso con i guantoni, che predilige il romanzo sulla boxe di Heinz «Il professionista», che scrive «Cinquanta bigliettoni»... «Hemingway, durante il Ventennio bandito dall’Italia, anche se le maglie della censura non erano così strette. Potemmo quindi leggere il magistrale racconto Gatto sotto la pioggia , ambientato, non ho dubbi, a Viareggio. Inviso al regime perché? A Losanna aveva intervistato Mussolini, offrendone un ritratto qua e là caricaturale. Indugiando ad esempio sul détail che il Duce teneva in mano un libro alla rovescia. Magari un’invenzione d’autore...». Il suo Hemingway? « Addio alle armi , Fiesta , un ventaglio di racconti, come L’invitto , storia di toreri (la corrida a cui mai ho voluto assistere). I suoi temi, infine, erano limitati: il coraggio, la verità, la sfida alla morte, consapevole che la vita di ognuno è l’attesa di questa inesorabile conclusione. Scema quando diventa manierista, quando, ecco, scrive alla maniera di Hemingway». Il tennis. Giorgio Bassani, «Il giardino dei Finzi-Contini». Bassani che nel «Toro delle meraviglie» brilla come calciatore, le vostre partitelle a Villa Borghese... «Sì, bravo con il pallone nonostante fosse, volesse fortissimamente essere, un letterato totale. Di questa urgenza improntando nettamente il fisico. No, Il giardino dei Finzi-Contini non è la sua prova migliore: a difettare sono l’intensità, la drammaticità. I capolavori? Una notte del ’43 eGli occhiali d’oro . Ne avevo apprezzato Una città in pianura , inizialmente. Ci conoscemmo nel 1943, a Firenze, alle Giubbe Rosse. C’erano i soliti, Montale, Ca’ Zorzi, fondatore de La Riforma Letteraria , Rosai..., il loro linguaggio cifrato, oscillante fra il dire e il non dire. Landolfi? Era asserragliato nel castello di Pico. Lo lasciò - si seppe - per calarsi in una bisca romana, nudo sotto un mantello...». Il tennis. Proust con la racchetta, in ginocchio nel club del boulevard Bineau... «Proust. Scovai la Recherche da un antiquario, a Roma. E, in Svizzera, un’antologia della monumentale opera. E’ il leitmotiv della memoria ad esercitare su di me un richiamo possente. Non a caso apprezzo un filosofo come Bergson. E la liaison Bergson-Proust è nitida. Ma la pagina di Proust è pasta scotta, mentre a me piacciono gli spaghetti al dente». Il suo romanzo sportivo è «La carriera di Pimlico», storia di un purosangue. «L’ippica, che passione. Me la trasmise un compagno di ginnasio, Pirzio Biroli, figlio del generale. Una data a svettare: 1938, le Capannelle. In pista i maggiori cavali di ogni epoca: Donatello e Nearco (Nearco, con De Gaulle e Churchill l’ulteriore mio nume). Vincerà Nearco, con cento metri di vantaggio. Nello stesso anno conquisterà il Grand Prix di Parigi. Elegantissimo, gli riusciva tutto con straordinaria facilità. Di sicuro superiore a Ribot». Cavalli e scherma. Nell’«Innocente» si ode «il tintinnio e il luccicchio delle lame», si stagliano «le varie pose incom- poste o eleganti degli schermitori...». «D’Annunzio. L’ho detestato. In primis per ragioni politiche, lui emblema dell’interventismo, e Fiume, e il volo su Vienna. Odioso. Epperò è un lirico maiuscolo. E tra i romanzi Il piacere è il ritratto egregio della Roma decadente, dell’esteta amorale, Andrea Sperelli al di sopra del bene e del male. Ma elogerei inoltre Giovanni Episcopo , di respiro dostoevskijano». Il ciclismo. Quante penne per le due ruote. Da Gatto a Pratolini, a Buzzati... Lei rammenta: «Nel 1926 scoprii il Giro d’Italia che fu vinto da Brunero, mentre io parteggiavo per Binda....». «E poi parteggiai per Bartali, ragioni anagrafiche. Ma Coppi era di gran lunga più forte. Bartali più intelligente. Coppi era nevrotico, malinconico, aveva la morte addosso». Quando Coppi muore, Orio Vergani poeticamente lo saluta: «L’Airone ha chiuso le ali». «Lo celebrai anch’io, due pagine sull’ Espresso . Muovendo da un’impresa sull’Appennino toscano. Venne un nubifragio, il cielo si oscurò, pareva d’essere di notte. Raggiunsi con un collega Pistoia, ci rifugiammo in un sottopassaggio, attendendo. D’improvviso schiarì e apparve, in fuga, sulla strada lucida di pioggia, lui, Coppi...». Noi attendiamo i suoi elzeviri, per capire che ne sarà dell’italiano... «Li ho intitolati L’evasivo Signor Carpendras , un omaggio a Antonio Delfini, attingendo in un suo racconto. Per fortuna siamo irredimibili. Identificare la moralità con il buon cittadino è un retaggio nordico, protestante. Grazie a Dio, non si ha il senso dello Stato. Viceversa non saremmo riusciti ad attraversare le bufere della Storia, dalla Rivoluzione francese, di una sanguinosità e terrificità senza eguali, in avanti. La salvezza è individuale o non è». Dal Cinquale gli fa eco Maccari: «Salvatico è colui che si salva!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!».