Roselina Salemi, La Stampa 16/6/2012, 16 giugno 2012
C’ è
quella pensata per i fuochi a induzione, sempre più di moda, ci sono quelle speciali per il cappuccino, l’orzo e la crema di caffè. Ci sono quelle elettriche, con la musica e di ultradesign (guardare, ma non toccare). Hanno molti nomi: Zera, Brikka, Dama, Twist, Zazà, Vulcano. Ma l’ultima, inventata dalla signora Patrizia Tringolo di Gravellona, imprenditrice, moglie di un artigiano dell’alluminio, deve essere ancora battezzata.
Già, perché le caffettiere, quasi cenerentole nella folla «glam» di macchinette per l’espresso casalingo, raccomandatissime da star come George Clooney per Nepresso o Julia Roberts (vista nello spot Lavazza), sono ancora molto amate (le usano il 67 per cento degli italiani) e si difendono dall’avanzata travolgente delle cialde che hanno conquistato il 3,4 per cento del mercato e continuano a crescere.
Delle invenzioni italiane, è la più italiana di tutte (non si offendano i Ferragamo che hanno brevettato il tacco a spillo) tanto da meritare, nella versione «cappucciniera», la copertina del volume «150 (anni di) invenzioni italiane» di Vittorio Marchis, Codice Edizioni.
Bialetti ha seminato 270 milioni di caffettiere in tutto il mondo e in ogni casa italiana ce ne sono almeno due. Non mancano le mutazioni genetiche: in laboratorio è nata Miss Moka Evolution, l’ibrido che va a cialde. Consumiamo 5,77 chili di caffè a testa, 37 a famiglia in un anno, tanti, anche se siamo solo al settimo posto, dopo le nazioni del nord Europa (Finlandia, Danimarca e Olanda).
Non ci svegliamo senza un caffè (succede al 57 per cento) e perché sia buono bisogna conoscere alcuni piccoli segreti: acqua povera di calcare, filtro riempito senza pressare la polvere, fuoco lento, coperchio alzato appena le prime gocce escono fuori, e guai a lasciare la moka sul fornello acceso. Eduardo De Filippo sosteneva, in «Questi fantasmi» che le donne non sanno fare il caffè.
Lui usava la «napoletana», ma forse non sapeva che ne bevono più degli uomini (1,7 tazze contro 1,5) e sono più curiose. Si innamorano delle forme, inseguono la caffettiera vista in un film.
La ricerca di quella che appare in una scena di «Immaturi» (acciaio/alluminio e ceramica bianca a righe gialle) quando Raoul Bova e Luisa Ranieri fanno colazione, è diventata un tormentone. In tempi come nostri, di nostalgica immersione nel vintage, di ritorno al passato, potremmo fare a meno di una moka?
Andrea Moretto, appassionato collezionista (è arrivato a quattrocento) ne ama particolarmente una degli Anni 60, «un piacere per la vista e per il gusto», e assicura che «una caffettiera in alluminio darà un risultato differente da una in acciaio o ceramica, rame, ottone nichelato o argento rodiato».
C’è l’approccio pragmatico-ecosostenibile: «In un espresso ci sono solo tre sorsi, sai che soddisfazione, mentre dalla caffettiera puoi riempire la tazzina almeno tre volte di fila. Ah, e ricordate: i fondi di caffè possono essere riciclati in una dozzina di modi», ricorda Mariella Dipaola su Uomoplanetario.org.
C’è l’approccio romanticotradizionale: «Il dolce gorgogliare del caffè che sale è la musica più bella, subito dopo Mozart», dic e Frances Mayes, autrice del vagabondaggio sentimentale di «Sotto il sole del Mediterraneo» (le macchinette non hanno un suono così poetico, non ancora).
E poi, «a riempire una stanza, basta una caffettiera sul fuoco». Lo scrive Erri De Luca, in «Tre cavalli», ma va bene per tutti.