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 2012  giugno 16 Sabato calendario

Il record di iscrizioni alle scuole di giornalismo americane è imbattuto dal 1974. Un’intera generazione innamorata di Bob Woodward e Carl Bernstein, reporter del «Washington Post» che agli ordini del direttore Ben Bradlee, forse il miglior giornalista del ’900, e dell’editrice Katharine Graham riducono alle dimissioni – uniche nella storia Usa - il presidente repubblicano Richard Nixon

Il record di iscrizioni alle scuole di giornalismo americane è imbattuto dal 1974. Un’intera generazione innamorata di Bob Woodward e Carl Bernstein, reporter del «Washington Post» che agli ordini del direttore Ben Bradlee, forse il miglior giornalista del ’900, e dell’editrice Katharine Graham riducono alle dimissioni – uniche nella storia Usa - il presidente repubblicano Richard Nixon. Il regista Pakula gira «Tutti gli uomini del presidente», Robert Redford è Woodward, elegante ex ufficiale di Marina laureato a Yale, di cui i pettegoli dicono «Scrive male, l’inglese non deve essere la sua madre lingua», Dustin Hoffman invece Bernstein, stazzonato cronista figlio di comunisti ebrei epurati dal Maccartismo, così playboy che la futura moglie, la sceneggiatrice Nora Ephron, scherzerà «ai party, in mancanza di meglio, fa l’amore con le tende veneziane». L’arroganza della Casa Bianca e la tenacia del «Washington Post» mutano la politica, i media e l’opinione pubblica americana radicalizzandoli fino a oggi. Il paese, malgrado il perdono che il presidente Ford assegnerà a Nixon, perde valori condivisi e invano riproposti da Obama. Richard Milhous Nixon, 1913-1994, testardo Capricorno californiano, era stato giovane vicepresidente di Eisenhower nel 1952, sconfitto dal democratico Kennedy nel primo duello televisivo 1960 e due anni dopo battuto come governatore della California. «Non avrete più Nixon da scalciare» dice agro ai cronisti, mosso dal risentimento che gli fa opporre l’America dei «cowboy», ceto medio con tinello e tv, il cappotto scozzese che vantava essere capo prediletto dalla moglie, agli aristocratici «yankees», i Kennedy, i college sofisticati, i giornali liberal, le pellicce della V Avenue. Quando i nastri registrati del Watergate portano agli americani la sua voce segreta, Nixon perde il consenso della «Silent majority» che l’ha fatto trionfare alla Casa Bianca nel 1968 e nel 1972, per la cupa aggressività, non per i reati dei collaboratori. Il razzismo, «i giudei sono sleali!» bofonchia davanti al capo della diplomazia Kissinger e al consigliere Safire, ebrei. La volgarità, «alla Graham strizzate le tette nelle rotative». La paranoia per le fughe di notizie, i «Pentagon Papers» sul Vietnam che l’ex agente Cia Ellsberg manda in segreto al «New York Times», «Frugate nello studio del suo strizzacervelli». Il disprezzo per la privacy «Paparazzi contro Ted Kennedy…Il direttore di Newsday ci attacca? Trovate la sua dichiarazione dei redditi…» rompono l’identità tra Nixon e America media, businessmen, veterani, operai bianchi che lo votano irritati dal 1968 pacifista e psichedelico, e che il disegnatore del settimanale radicale «Village Voice», Feiffer, sfotte come patrioti senza cervello. Il 17 giugno 1972, insospettito da una serratura bloccata col nastro adesivo, Frank Wills, guardiano al grande condominio di Washington Watergate, chiama la polizia, che arresta 5 presunti topi d’appartamento al quartier generale democratico. Il giudice Sirica risale da un numero di telefono al collaboratore di Nixon Hunt e lo scandalo, grazie anche alle inchieste di Woodward e Bernstein, dilaga: il suffisso -gate diventa stigma di infamia. Gli «idraulici», i guastatori che spiano i democratici, hanno visto per due volte i piani del duro Gordon Liddy bocciati dal ministro della Giustizia Mitchell. La terza volta però Mitchell cede e approva le infiltrazioni. Quando Mark Felt, dirigente dell’Fbi geloso dello scippo delle intercettazioni telefoniche esclusiva degli agenti di E.J. Hoover, assume lo pseudonimo di «Gola profonda» (da un film soft porno) e guida dall’ombra l’inchiesta del Post, Nixon è spacciato. Proverà a licenziare il commissario speciale Cox, ma dopo tanti no solo unfunzionariodelministerodellaGiustizia accetta: il giurista Bork. Ted Kennedy si vendicherà silurando la sua candidatura alla Corte Suprema. Nell’estate del ‘74 Nixon chiama il senatore conservatore Goldwater e gli chiede di quanti voti disponga contro l’impeachment, l’incriminazione: «Quattro su cento, i vecchi sudisti, gli altri hanno dubbi, me compreso» è la sentenza. Nixon lascia lo Studio Ovale, si inginocchia a pregare con Kissinger, si dimette. Passerà vent’anni per riabilitarsi, anche con l’intervista diventata poi film a Frost. Dei trucchi sporchi Nixon non aveva necessità contro il democratico McGovern, che piega in 49 stati su 50. La sua presidenza non taglia lo stato sociale, negozia dopo i bombardamenti di Laos e Cambogia la tregua in Vietnam, con il golpe in Cile del ’73 si fa odiare dalla sinistra ma apre alla Cina nel ‘72ecambiailmondo.LatragediaWatergatesomma«lapresidenzaimperiale»studiata dallo storico Schlesinger alla «paranoia politica americana» illustrata dal critico Hofstadter.«Quelcheilpresidentefaèlegittimo sempre» diceva Nixon, credendo davvero alla follia che rovina tanti con lui. Dello staff presidenziale vanno in galera in 43. Anche i giornali pagano però il Watergate. Gli americani di centrodestra li marchiano come «liberal», sintonizzandosi sui populisti della radio alla Limbaugh e Fox news. Per emulare Woodward e Bernstein troppireportervanitosiattaccanoReagan, Bushpadre,Clinton,incercadiuno«Scandalgate» da Pulitzer, e perdono così di vista i problemi profondi del paese. Non si avvedonocheilpotereimparalalezionedelWatergate, eludendo, con Bush figlio per esempio,lacaricaatestabassadeimedia.I leader si abituano a sentire i giornali titolare «Il re è nudo!» e, dietro le quinte, governano furbi. Da noi, per vent’anni, si cerca il Silviogate contro Berlusconi, che alla fine sarà costretto alle dimissioni non dagli scandali ma dalla crisi economica. Bernstein ha avuto molti guai privati, Woodward non è diventato direttore del «Washington Post» per una cronista che inventava reportage (in America non si può), Nixon è morto ripetendo «La storia mi ricorderà per la Cina non per il Watergate». Comincia ad avere ragione.