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 2012  giugno 14 Giovedì calendario

L’Italia unita? È una creatura di Napoleone - «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto: e la vi­ta, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la no­stra infamia»

L’Italia unita? È una creatura di Napoleone - «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto: e la vi­ta, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la no­stra infamia». Iacopo Ortis, alias Ugo Foscolo, apre così la sequenza delle sue ultime lettere:la data è l’11 ottobre1797, illuogoèsuicolliEuga­nei, primatappadell’esilio.Qualcu­no lo ha tradito, costringendolo a far fagotto dalla sua Venezia. Il fedi­frago è Napoleone, all’apice della campagna d’Italia. Era stata una scorreria travolgente scattata dalle coste liguri,una batosta dopo l’altra a savoiardi e austriaci, sui campi di Montenotte, Lodi, Arcole. Il generale Bonaparte, nelle vesti di plenipotenziario della repubbli­ca francese, era pronto a far firmare agli imperiali il trattato che i patrioti della Serenissima avrebbero poi de­precato come della vergogna e del­la perfidia. Il testo passò alla storia come «pace di Campoformio»: un’astrazione della diplomazia, perché quel pugno di casupole, tra Passariano, quartier generale dei francesi, eUdine, residenzadelcon­te Cobenzl, firmatario per l’aquila bicipite, non aveva sedi adatte a un protocollo di tale livello. Era solo un punto sulle mappe, dichiarato neu­traleperconvenzionedeicontraen­ti. Napoleone strappava all’Austria per la sua Francia il Belgio e la«spon­da dell’Adige », cioè la ricca e popo­losa Padania; in cambio, regalava a Vienna la città dei Dogi, che così per­deva un’indipendenza millenaria. Se Iacopo avesse potuto entrare nel­la testa del Bonaparte, e decifrarne il machiavello politico a lunga gitta­ta, non si sarebbe deterso le lacri­me, ma avrebbe coltivato qualche speranza in più, e forse non si sareb­be avvitato nella depressione. Oggi disponiamo di un magnifi­co documento per fare un po’ di die­trologia, e interpretare più chiara­mente i piani ideali del futuro Empe­reur . Si tratta di Le memorie della campagna d’Italia , di Napoleone Bonaparte (Donzelli,pagg.334,eu­ro 32), dissepolte da un oblio cente­nario, primo atto di una trilogia che continua con gli analoghi scritti sul­la spedizione in Egitto, e si chiude con i commentari dell’Elba e dei CentoGiorni. Nellavisionedinami­ca ed eversiva di Napoleone, Cam­poformio non è un atto tombale: è una mina libertaria, il detonatore di una riforma dei popoli incuneato tra i ruderi dell’antico regime,in vi­sta di un mondo nuovo. Ogni rivolu­zionario vero dovrebbe capirlo. Del­la repubblica veneta, il vincitore non aveva stima: aristocratica, im­mobilista, smidollata. Il suo colpo di spugna avrebbe cambiato le car­te in tavola. «I diversi partiti che divi­devano Venezia sarebbero scom­parsi: aristocratici e democratici si sarebbero uniti contro lo scettro di una nazione straniera» profetizza lo statista. E continua «non c’era più da temere che un popolo dai co­stu­mi cosi dolci potesse mai affezio­narsi a un governo tedesco, né che una grande città commerciale, po­tenza marittima da secoli, si legasse sinceramente a una monarchia estranea al mare e priva di colonie». Poi lo sguardo si apre ai destini di tutta la penisola, che a quel tempo era un’arlecchinata di staterelli divi­sieriottosi. Napoleone, conincredi­bile anticipo, vede un’Italia unita­ria. «Se mai fosse giunto il momen­to di creare una nazione italiana ­scrive - la cessione di Venezia non sarebbe stata affatto un ostacolo: gli anni che i veneziani avrebbero pas­sato sotto il giogo della casa d’Au­strialiavrebberoportatiadaccoglie­re con entusiasmo un governo na­zionale... ». Carbonari e fautori del ri­sorgimento sono di là da venire, ma l’uomo di Aiaccio già vede un trico­lore che sventola sullo stivale, dalle Alpi al tacco. «I veneziani, i lombar­di, i piemontesi, i genovesi, i parmi­giani, i bolognesi, i bergamaschi, i ferraresi, i toscani, i romani, i napo­letani, avevano bisogno, per diven­tare italiani, di essere disgregati e ri­dotti in elementi; occorreva, per co­si dire, rifonderli». Un piano drasti­co, un pensiero prematuro di mez­zo secolo. Quello che Bonaparte non sapeva- e che tanti politici suoi successori avrebbero constatato a loro spese - era che «fare» gli italia­ni, ma soprattutto governarli, era un’impresapiùchedifficile:impos­sibile. Ma frantumare per ricostrui­re era il suo stile. Ne è simbolo ciò che accadde da Cobenzl. Il testo di Campoformio era già in carta, ma gli austriaci tiravano per le lunghe sulla firma. Sul tavolo del­le riunioni spiccava un cabarè di porcellana, dono dell’imperatrice Caterina al padrone di casa. Napole­one lo scaraventò sul pavimento, che si coprì di cocci. «Ventiquattro­re di tempo - tuonò - poi parlerà il cannone», e uscì dalla sala già det­tando agli ufficiali i preliminari d’at­tacco. Il giorno dopo, 17 ottobre, la tempestiva ratifica. Questo piglio in­nerva la prosa delle Memorie . Bona­parte le dettò a quattro fidi evangeli­sti nell’eremo di Longwood, nella sonnolenta Sant’Elena, dove co­struì un impressionante opificio dei ricordi storici. La scrittura è milli­metrata con il compasso, il calibro e il cronometro, gli strumenti con cui aveva pianificato le vittorie sulle car­te militari e sul terreno. Vi è insita una retorica così spontanea e smi­surata che si mimetizza. La si coglie solo nelle allocuzioni ai soldati: ma è l’ingrediente naturale dell’enor­mità. Le notazioni geografiche (con­trol­late sulle migliaia di libri che for­mavanolasuabibliotecadacampa­gna) non sfigurerebbero sui testi di­dattici di oggi. Tutto in terza perso­na: Napoleone fece, Napoleone dis­se. Un richiamo a Cesare, idolatrato come stratega e comunicatore. «La vita o si scrive o si vive», disse Gabriele D’Annunzio. Non è vero. Il còrso impugnò scettro e penna: il primo per il tempestoso presente, la seconda per i posteri, per piegarli a una sentenza di gloria e di gran­dezza.