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 2012  giugno 15 Venerdì calendario

L’AFRICA, LE INFEDELTA’, LA MALATTIA. TUTTI I SEGRETI DI BOB MARLEY

Il documentario che racconta la vita del più grande musicista giamaicano comincia in Africa. Non al sole, ma nel buio della prigione degli schiavi da dove milioni di uomini e di donne vennero portati, peggio di come si trasportava il bestiame, in America: «Chi passava da quella porta non sarebbe mai più tornato».
Non poteva che partire dall’Africa la storia della vita di Bob Marley, profeta del reggae scomparso nel 1981 a soli 36 anni: Marley, il documentario che ha debuttato al Festival di Berlino esce in Italia il 26 giugno per un solo giorno di programmazione e porta con sé recensioni lusinghiere e una firma importante. Il regista, lo scozzese Kevin Macdonald, ha vinto un Oscar per il migliore documentario (Un giorno a settembre sul massacro di atleti israeliani alle Olimpiadi del 1972) e ha girato film intelligenti e di successo come L’ultimo re di Scozia.
Il documentario ha avuto la piena collaborazione della famiglia — Ziggy, uno dei suoi tredici figli, è co-produttore — ma Macdonald ha evitato il rischio-agiografia sempre in agguato quando si raccontano le vite dei giganti con l’aiuto dei loro cari grazie allo spirito giornalistico. Parlano i testimoni diretti, uno dopo l’altro. I parenti stretti, certo, ma anche i colleghi e quelli che l’hanno conosciuto bene. Macdonald riesce a far parlare gli intervistati liberamente, senza genuflessioni verso la leggenda o il timore di rivelare cose sconvenienti: ecco così in due ore e mezza di film tutte le contraddizioni di Marley catalogate e osservate come parte integrante — fondante, forse — della sua grandezza.
Bob Marley era l’uomo che amava la famiglia ma era incapace di essere fedele, tanto che in un vecchio audio Bob risponde alla domanda di un giornalista («Sei sposato?») con un semplice «no», e l’espressione sul volto di sua moglie Rita quando ascolta quelle parole rappresenta, come si è subito accorto Macdonald, una delle chiavi del film. L’uomo che adorava i suoi figli ma che viene ricordato da una di loro, Cedella, come un padre lontano e complicato la cui mancanza non si è ancora attutita, a più di un trentennio dalla sua scomparsa. Un uomo tanto maniacalmente sportivo (il calcio era la sua ossessione, andava a correre tutte le mattine sulla spiaggia) quanto fumatore incallito. L’ex ragazzo poverissimo e di gusti semplici (si vede in un fotogramma straordinario che pare una foto di Sebastiao Salgado la baracca dove nacque) che arrivato al successo scelse di vivere tra i più ricchi della Giamaica e giustificò la scelta con una battuta: «Sorella, ho portato il ghetto nei quartieri alti». Il cantore del sogno di libertà della «diaspora africana» che però finì per cantare per la prima volta in Africa davanti a un dittatore — Omar Bongo, leader a vita del Gabon — tra i più corrotti del continente, la cui figlia fu scoperta mentre comprava una villa a Malibu da 25 milioni di dollari. Macdonald non chiude gli occhi neppure davanti alla malattia incurabile di Marley: altri documentaristi sfumerebbero o magari andrebbero in cerca di una citazione comoda per descrivere lo stoicismo davanti al cancro del profeta della religione dei rasta, invece qui un amico racconta che, quella diagnosi, Bob «la prese maaaaale». E in quel «baaaaad» c’è tutto il senso inequivocabile della rabbia che deve aver provato quel ragazzo di 36 anni con il corpo atletico divorato dalle metastasi. Condannato a una morte prematura alla quale neppure la sua fede profonda poteva dare un senso. E poi ecco la sua band spiegare che c’era un concerto e il sound check preliminare durò due ore e mezza, «il sound check più lungo che avessimo mai visto». E alla fine di quella serata, a Pittsburgh, 23 settembre 1980, i bis non finivano mai perché Marley era l’unico a sapere che era il suo addio alla musica.
Matteo Persivale