Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 15/06/2012, 15 giugno 2012
L’INNO DI MAMELI SARA’ INSEGNATO NELLE SCUOLE
Studiare l’Inno di Mameli a scuola con Dante, Petrarca, Manzoni e Montale e magari De André? L’approvazione della Commissione Cultura della Camera arriva dopo anni di tentativi. L’elmo di Scipio, la chioma, la speme, Legnano, il sangue polacco e quello cosacco saranno indubbiamente un rompicapo esegetico, ma pazienza. Purché non diventino un’ossessione, un accanimento didattico. Non è escluso che l’arcaicità linguistica, i remoti riferimenti storici e la gonfia retorica patriottica metteranno a dura prova in primo luogo i professori. «Scusi, Prof, perché i bimbi d’Italia si chiaman Balilla?». Sono domande mica da ridere, anche se c’è sempre la possibilità di ricorrere alla magistrale lezione sanremese di Roberto Benigni, che arrivando su un cavallo bianco è riuscito celebrare il Risorgimento, i suoi valori, gli eroi, i giovani morti per la Patria.
A un anno dalle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, c’è il primo via libera all’insegnamento dell’inno nelle scuole, grazie alle proposte di legge di Maria Coscia (Pd) e di Paola Frassinetti (Pdl). I ragazzi dovranno studiarlo tutto. «Studiare» è un verbo impegnativo per i nativi digitali. Figurarsi studiare la poesia, figurarsi studiare un testo poetico, il «Canto degli Italiani», non proprio eccelso, che fu scritto nel 1847 da uno studente genovese nato nel Regno di Sardegna, un poemetto in cinque strofe di senari che sarebbe stato messo in musica pochi anni dopo da un altro genovese, Michele Novaro. A maggior ragione sarà complicato per gli altoatesini, che hanno chiesto di concedere alla Provincia di Bolzano una piena discrezionalità sulla materia, per evidenti difficoltà linguistiche supplementari. Emendamento approvato. La contrarietà della Lega era prevedibile e non fa che nobilitare la decisione parlamentare se solo si ricordino gli inviti di Bossi a pulirsi le parti basse con la bandiera tricolore.
Nel 1974, lo scrittore Giorgio Manganelli sosteneva che i simboli dell’unità nazionale suscitano nell’«italiano medio, scapolo, divorziato o con famiglia» più rispetto che simpatia: un contegno magari ipocrita che Manganelli giudicava però saggio e prudente, «da vero italiano». Oggi, dopo anni di minacce secessioniste e di vilipendio all’idea di unità, le cose per fortuna sono cambiate, e i valori della patria sono stati riscoperti anche grazie all’impegno di presidenti della Repubblica come Ciampi e Napolitano e infine alle celebrazioni non sempre convenzionali dell’anniversario.
In fondo la debolezza storica dell’unità politica e il fragilissimo rispetto della cosa pubblica non hanno impedito l’identificazione degli italiani con l’Italia. Un’identificazione che, lo si voglia o no, si manifesta spesso e volentieri in sommo grado quando si alzano le note dell’Inno di Mameli, tanto più se in occasione dei Mondiali o degli Europei di calcio. Certo, il canto collettivo è una cosa, ben diverso è lo studio obbligatorio. Sarebbe consigliabile, forse, cominciare a mandarlo a memoria collettivamente, mettendo nel conto qualche stortura, qualche imprecisione e un po’ di divertimento (perché no). E rinunciando, per carità di Dio (e della Patria), alle schede metriche e ai glossari tecnici che pretendano di illustrare iati, apocopi, sincopi, metafore, metonimie, anastrofi, personificazioni, rime, allitterazioni, che elenchino i congiuntivi esortativi e le interrogative retoriche. Che sia un insegnamento leggero, persino approssimativo. Lo sarebbe comunque, senza bisogno di accanirsi sul povero Mameli. È già morto una volta, nel 1849, in seguito a una ferita apparentemente lieve subita mentre combatteva da capitano al fianco di Garibaldi. La baionetta che lo colpì involontariamente era di un suo commilitone. Cerchiamo di non ucciderlo per la seconda volta, senza volerlo. Con lui morirebbero di noia migliaia di studenti: «pronti alla morte» ma fino a un certo punto.
Paolo Di Stefano