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 2012  giugno 15 Venerdì calendario

DALL’ACQUA ALL’EDILIZIA: IL BUSINESS DEL CAPITALISMO MUNICIPALE —

Fatturano 43 miliardi di euro, e in programma ne hanno altri 115 da investire, impiegano 186 mila dipendenti che salgono a 300 mila se il perimetro si allarga a tutte le partecipate. Tra presidenti, amministratori, consiglieri e direttori generali si arriva a un esercito di quasi 16 mila «manager» con una media di 4,3 per azienda. Le società in tutto sono quasi 4 mila ma nessuno sa con esattezza il numero vista la «scarsa completezza della informazioni fornite». Un terzo di queste sono comunque in perdita e sempre il 30% circa sono quelle che offrono davvero servizi pubblici per i cittadini.
Ecco la fotografia del capitalismo municipale che il governo di Mario Monti si accinge a smantellare, scattata dall’Irpa, l’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione fondato nel 2004 da Sabino Cassese. Nel rapporto di 29 pagine realizzato dai ricercatori Sveva Del Gatto, Susanna Screpanti e Diego Agus sotto la guida di Giulio Napolitano, una analisi impietosa di un settore che continua a crescere e a moltiplicarsi nonostante i molti tentativi di riforma. Nel 2009, il peggiore anno dell’economia con un Pil in picchiata del 5%, il capitalismo municipale è andato controcorrente realizzando un aumento di fatturato dell’1,7%.
Nel rapporto si ricordano molti episodi di malcostume dove «la preponderanza delle logiche politiche supera di gran lunga quelle di mercato». Clamoroso il caso di Roma Capitale: il personale delle aziende che fanno capo al Campidoglio è cresciuto dal 2008 al 2010 di 3.500 unità. Alla fine del 2010 le tre principali aziende di Roma, cioè Atac, Ama e Acea avevano 2637 dipendenti in più rispetto a due anni prima «nonostante la crisi generale in aggiunta alle loro performance scadente e a ingenti situazioni debitorie».
Solo il 37,6% si occupa di servizi pubblici locali come la raccolta rifiuti la gestione dell’acqua, i trasporti, l’energia, il gas ect. Il restante 62,4% — si legge — si occupa di altre attività, edilizia, servizi alle imprese, oltre a società partecipate che svolgono compiti anomali «come la gestione da parte del Comune di Venezia del casinò, o quelle di un campeggio da parte del Comune di Jesolo. Il rapporto Irpa cita come fonti Nomisma, la Corte dei Conti, l’Istat, il Cnel, Unioncamere evidenziando forti disparità nella raccolta dati spiegabile con il fatto che quasi sempre si tratta di analisi a campione. L’assurdo quindi è che il governo si appresta a privatizzare o a razionalizzare un settore le cui dimensioni sono ancora in parte sconosciute. Una delle maggiori anomalie riscontrate è il ricorso indiscriminato degli affidamenti in house, cioè senza gara, di molti servizi. L’Antitrust ha cercato di intervenire appurando che il 32,9% delle pratiche da lei seguite ha emesso parere contrario. Nonostante molti interventi legislativi in questi ultimi anni «le dimensioni del fenomeno restano preoccupanti». «I dati sugli affidamenti diretti infatti indicano chiaramente come lo strumento societario sia stato utilizzato dagli enti locali principalmente per eludere i controlli pubblicistici e le norme di derivazione europea in materia di concorrenza».
In questo modo, ecco l’amara conclusione dello studio Irpa, i cittadini finiscono per pagare due volte un prezzo ingiusto: «Come contribuenti sopportano il costo di imprese inefficienti e in perdita, come consumatori sono costretti a rivolgersi a gestori individuati per la contiguità al potere politico invece che per la capacità di offrire prestazioni migliori». L’opera di disboscamento non sarà tuttavia facile, complicata dal referendum contro la «privatizzazione» dell’acqua che ha contribuito a ingarbugliare ancora di più il processo di semplificazione. L’Irpa consiglia di evitare la «privatizzazione formale e seguire quella sostanziale». Ma qui occorrono nuovi e più stringenti poteri di controllo.
Roberto Bagnoli