Leonardo Coen, il venerdì 15/6/2012, 15 giugno 2012
CREMONA QUELLA PICCOLA CITTÀ INVASA DAI TURISTI DEL GRANDE SCANDALO
CREMONA. Un’auto targata Torino accosta in piazzetta Santa Lucia, davanti allo studio mobile Rai, parcheggiato sul marciapiede dalla parte della fermata d’autobus B: «Novità?». «Nessuna. Tutto tranquillo, oggi». Il tecnico indica via Stefano Jacini. Deserta. Il sole del tramonto illumina la facciata della Procura. Il portone, al numero 6, è chiuso e protetto da una cancellata di ferro. Inutile bussare alla porticina del 6/a. Roberto Di Martino, il procuratore capo, diventato suo malgrado il magistrato più famoso d’Italia per via dello scandalo di Calcioscommesse, è tornato a casa. Da un paio di giorni, poi, ha scelto la strada del silenzio. Per un po’ di tempo vuole evitare di parlare coi giornalisti. È stanco di essere sotto i riflettori dei media. Ed è stanchissimo perché l’inchiesta, partorita come un topolino, è diventata pesante come un elefante.
Non che si sia mai fatto intimidire dalle dimensioni dei casi giudiziari affrontati. Anzi. Sua è stata l’inchiesta sul terrorismo islamico che aveva una cellula clandestina proprio a Cremona. Senza dimenticare la strage di piazza della Loggia di Brescia del 28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti, un massacro rimasto impunito, un pezzo di Storia mancata. Di Martino ce l’aveva messa tutta, insieme al pm Francesco Piantoni, pur di riannodare i fili spezzati delle indagini sovente «deviate», pur di recuperare le prove occultate e capire il perché delle prove distrutte.
Ed ecco che, un anno fa, gli scoppia tra le mani il caso Minias, cioè il caso del calmante somministrato da Marco Paoloni, il portiere della Cremonese, ai compagni di squadra durante l’intervallo della partita contro la Paganese: è il primo giugno del 2011 quando Paoloni viene arrestato. Pareva una storia piccola, per una procura piccola di una città piccola dove tutti conoscono tutti, e infatti da mesi si mormorava delle strane «papere» collezionate da Paoloni. Uno dei tanti furfanti pescati a imbrogliare la partita... Chi mai si sarebbe aspettato di approdare in Asia, di fiondarsi a Singapore, nei Balcani, in Romania, in Bulgaria, di inseguire le malefatte della Banda degli Zingari, di vedere coinvolti mostri sacri del calcio?
In questura, Sergio Lopresti e la sua squadra mobile a un certo punto hanno dovuto arrendersi all’evidenza: da soli non potevano farcela. Si è formata una taskforce specializzata, grazie ai contributi di Brescia e Bologna e dello Sco, e nel rispetto formale delle competenze: il segreto del successo investigativo. Più dura la situazione in Procura: che rimane sotto pianta organica. Col procuratore capo dovrebbero operare altri tre pm, invece sono solo due (Francesco Messina e Fabio Saponara), e il lavoro non manca, c’è un fascicolo delicato da trattare, l’indagine sul presunto inquinamento della falda acquifera da parte della raffineria Tamoil, per Cremona una patata bollente. Per evitare sconquassi. Di Martino sceglie di assumersi l’onere dell’inchiesta Calcioscommesse (coinvolgendo il gip Guido Salvini), liberando i due pm. L’impressione è che sia sempre più difficile venir fuori dalla palude calcistica, ma Di Martino e Salvini hanno l’ambizione, tipicamente provinciale, di dimostrare che ci si può liberare dalle nostre pigrizie, dalle pessime abitudini.
L’auto targata Torino si allontana, non prima d’aver chiesto l’indirizzo della prigione: «Non ce ne andiamo senza una foto!». Un cameramen lo guarda di traverso. «Il turismo del Calcioscommesse!», dice, e nella voce c’è un bel po’ di disprezzo. Poco più in là, verso il centro, un manifesto nero annuncia la seconda edizione dell’altro lato del violino, «happy hour in musica all’Ala Ponzone», al museo civico di Cremona, in risalto la silhouette di un fondoschiena femminile nudo. Ironia alla Tognazzi che, non a caso, era di Cremona.
«In realtà, il turismo tradizionale e colto del cibo, del Torrazzo e dello Stradivari non tradisce mai, lo ha dimostrato il recente festival Le corde dell’anima, sapiente mix di musica e letteratura, che si è tenuto dal primo al 3 di giugno» spiega Vittoriano Zanolli, direttore del quotidiano locale La Provincia, «la nostra città ha un potenziale enorme. E, contrariamente alle apparenze, è una città insospettatamente vivace». Verissimo. Cremona è bella. È ricca: il suo patrimonio culturale, musicale, liutario è universalmente riconosciuto. La Libera – ossia la Libera Associazione Agricoltori Cremonesi – è uno dei cuori pulsanti della città (conta 2500 soci), qui si produce un decimo del latte italiano, qui c’è la Negroni, qui c’è l’impero del torrone (Sperlari, Vergani, ma anche la piccola e quotatissima Rivollini), qui cibo e violini sono una miniera d’oro, secondo Antonio Auricchio, il re del provolone (sebbene sia nato a Parma, è cremonese d’azione e di cuore), per lui, però, Cremona è una città che non sfrutta i suoi tesori, «è come una bella addormentata».
Opinione non condivisa dal resto del mondo, dopo il fatidico primo giugno del 2011, il giorno che il portiere Paoloni della Cremonese finì in manette. Da allora, non passa giorno che il nome di Cremona non venga associato all’inchiesta di Calcioscommesse: «Da un lato, questo ci inorgoglisce, perché ci diciamo: tutto è merito nostro, i nostri magistrati hanno scoperto il Grande Imbroglio» dice Matteo del grande negozio 3T Store di piazza Stradivari «da un altro punto di vista, tuttavia pensiamo anche che il primo ad essere coinvolto è stato il portiere della nostra squadra di calcio». Orgoglio e vergogna. La Cremonese è un’istituzione cittadina. Il proprietario Giovanni Arvedi, presidente dell’omonimo gruppo d’acciaierie che impiega 2400 dipendenti, è uno dei padri padroni di Cremona. In città sono convinti che prima o poi cederà la società. È tutto preso dal progetto del Museo del Violino, che verrà inaugurato a settembre. Ha puntato molto sulla nuova Cittadella dello Sport. Lavoro, cultura, sport. Uno sport «pulito», non inquinato (le truffe, scommesse e doping. Arvedi è stato uno degli sponsor di Oreste Perri, l’attuale sindaco di centrodestra (eletto nel 2009), quattro volte campione mondiale di canoa, uomo che ha sempre cercato di andare oltre le divisioni dei partiti. Un Pisapia di destra, un manovale del remo – attività sportiva in auge da queste parti – che «batte i politici di mestiere», come pensa il cittadino Massimo Rizzi. Il fatto che Cremona sia sempre nel cuore delle cronache italiane e di quelle straniere per via delle scommesse truccate non garba a nessuno. E ancora meno, garba il fenomeno collaterale del turismo dai contorni indefinibili e dai contenuti ancor più inqualificabili, che gravita attorno all’abisso immorale del pallone italiano. Sempre più gente, infatti, arriva a Cremona e chiede gli indirizzi della procura che ha scoperto l’inghippo, della questura che ha arrestato i calciatori e della prigione dove sono finiti, tra gli altri, Stefano Mauri, capitano della Lazio, e Omar Milanetto, centrocampista del Padova (ed ex del Genoa).
È qualcosa che va al di là della curiosità morbosa. È la configurazione di un itinerario spirituale del tifoso tradito, dell’appassionato deluso, dello spettatore incazzato. Questi pellegrini dell’indignazione calcistica sono comparse di un reality non più confinato negli stadi o negli studi tv, ma tra le strade e i palazzi di un’antica bellissima città che si vanta d’essere la più agricola della Lombardia, quasi a voler sottolineare il suo legame profondo alla terra, anzi, a queste terre d’acqua, ritagliate tra il Po e il tratto inferiore dell’Oglio.
Il riferimento all’acqua non è casuale. In fondo, il Calcioscommesse non è una sorta di allegorico naufragio dello «sport più bello del mondo»? La carcassa di Scommessopoli, disossata negli uffici giudiziari e nelle stanze della polizia, è protagonista di un naufragio ancora in corso. Con l’aggravante che l’inchiesta non solo va avanti, ma si è gonfiata a tal punto, che ha rischiato di sopraffare le esigue forze degli inquirenti locali.
Ed è qui il bello. Da sempre Cremona vive storie di provincia e di frontiera. Da quando fu la prima città che i romani costruirono a nord del Po, due secoli prima di Cristo. Nel magnifico cortile Federico II dell’Arengario, dove si trova il palazzo Comunale, di fronte all’altissimo Torrazzo e al meraviglioso Duomo, c’è una significativa lapide dedicata a Giacomo Pagliari, «ucciso a Porta Pia di Roma il 20 settembre 1870 nel combattimento che fu ultimo ad atterrare una dominazione sacerdotale non voluta da Cristo condannata dalla ragione e dalla Storia». Sono parole che raccolgono lo spirito indipendente e fiero della città. L’essenza del provincialismo più nobile. Don Primo Mazzolari, che era nato a Santa Maria del Boschetto, una frazione della campagna attorno a Cremona, era un’altra voce che non conosceva inchini. Lottò contro l’ottusità delle gerarchie ecclesiastiche, convinto che l’avvenire fosse «della democrazia», nei primi anni Cinquanta fu il centravanti della dottrina sociale i cui valori si imperniavano nel pacifismo e nella non violenza, tanto da sostenere un forte movimento di resistenza contro la guerra. Una sua frase chiosa il primo degli «incontri istituzionali» voluti dal sindaco Perri, «non a destra, non a sinistra, non al centro ma in alto», a proposito di «una politica per la città».
E allora, dopo aver sbirciato foto stupende in bianco e nero esposte dall’Ottica Faliva («Era sul Po la nostra Rimini»), conviene tirar dritto verso l’Ospedale Maggiore, e la sua torre. Non lontano da lì, in via Ca’ del Ferro, sorge il carcere che ha accolto e poi rilasciato Mauri e Milanetto. Siamo ai limiti della città, verrebbe voglia di dire, ai limiti della civiltà.
Oltre, c’è solo tanta campagna e la tangenziale, uno dei tanti non luoghi dei nostri tempi. La prigione, iniziata nel 1986 e terminata nel 1992, avrebbe dovuto ospitare all’inizio 150 detenuti in altrettante celle di nove metri quadrati: due letti, una tv a colori con telecomando e radio, un armadietto, un gabinetto. Il decreto Scotti-Martelli del 1992 ne raddoppiò invece capienza e problemi: oggi nelle sei sezioni si stimano in quattrocento. Dicono che tutti fanno a gara per organizzare partite con gli ospiti «eccellenti». Non si sa mai.
Leonardo Coen