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 2012  giugno 15 Venerdì calendario

DOVE SADDAM MASSACRAVA RINASCE ERBIL


Impossibile non restare stupefatti ogni volta che si torna a Erbil. A partire dall’aeroporto, con le baracche militari diventate terminal moderni, puliti, efficienti e un fiorire di costruzioni tutto attorno. Imboccata poi la nuova superstrada verso la cittadella antica oltre 6.000 anni s’incontrano subito le nuove periferie che avanzano, si moltiplicano con palazzi che diventano grattacieli, centri commerciali luccicanti di vetrate e cristalli, negozi di lusso con il meglio dei prodotti mondiali, internet diffuso. Non è difficile trovare il wireless nei taxi, e soprattutto imponenti gru ovunque, camion in movimento, cantieri in espansione: l’immagine di un boom economico sconfinato, ottimista, inarrestabile. Cerchi il luogo dove stava la vecchia caserma dei soldati di Saddam Hussein, scopri invece una boutique nuova di pacca specializzata in orologi di marca e pashmina in cashmere pregiato. Qualità e scelta alla pari, se non meglio, di ciò che espongono le piazze di Dubai. Al posto della pensione a due piani dove una volta alloggiavano i rari visitatori stranieri, sporca, malandata, con le imposte sventrate e i condizionatori più rumorosi che efficaci, c’è il nuovissimo Divan hotel a cinque stelle, costruito dal fior fiore delle ditte turche in tempi record. Solo quindici anni fa qui c’erano ancora le macerie della repressione baathista seguita alla guerra del 1991. Le quali si aggiungevano a quelle delle battaglie lanciate in precedenza dal governo di Baghdad contro l’irredentismo curdo. I 5.000 morti per le bombe chimiche di Halabja nel 1988 erano un memento immanente. C’erano palazzacci con i muri sbrecciati dai proiettili, negozietti e bottegucce da suk del terzo mondo, marciapiedi devastati dai cingoli dei carri armati. I buchi sull’asfalto raccontavano quanto fossero stati intensi e diffusi i cannoneggiamenti, oltre all’incuria pubblica, alla mancanza di volontà delle autorità per riparare i danni. D’estate le infezioni intestinali erano inevitabili anche per la popolazione locale. Invariabilmente le interruzioni alla corrente elettrica deterioravano il cibo nei frigoriferi. I generatori erano rarissimi. «Con il caldo solo riso in bianco», consigliavano i vecchi.
Ma sono memorie antiche. Rimembranze polverose di un’altra era. Oggi anche nei bar servono salmone affumicato, praticamente sconosciuti i black out energetici. In vent’anni il Kurdistan è passato da provincia disperata, povera, ghettizzata dalla dittatura, a miracolo economico aperto al business internazionale garantito da una lettura molto spinta del principio di Stato federale. Nulla a che vedere con la guerra civile strisciante tra sciiti e sunniti che insanguina e paralizza il governo di Nouri al Maliki a Baghdad. Non è strano dunque che crescano anche le spinte per l’indipendenza totale dal resto dell’Iraq. Un passo che apre però scenari difficili e la prospettiva inquietante dello scontro frontale con lo Stato centrale sostenuto da Teheran. Cuore delle frizioni restano due elementi: il braccio di ferro per le risorse petrolifere e la questione dei confini. Oltre 40 miliardi di barili dei 115 miliardi che compongono i giacimenti provati di greggio iracheno si trovano infatti nelle zone curde, comprese le regioni petrolifere contese di Kirkuk e Mosul.

L’oro nero. Circa un terzo dei giacimenti di gas del Paese sono curdi. Una ricchezza energetica immensa, che garantisce un budget regionale annuale pari a oltre 10 miliardi di dollari e con tassi di crescita che potrebbero superare il 20 per cento. Baghdad vorrebbe controllare interamente l’estrazione del greggio nazionale e ridistribuirne i proventi alle regioni proporzionalmente alla popolazione. I curdi si rifiutano e per giunta negli ultimi anni hanno firmato contratti di appalto direttamente con almeno 47 compagnie petrolifere straniere senza passare da Baghdad (altri sono in via di negoziato, compresi recenti abbocchi con l’Eni). L’export energetico diventa così la base della ricchezza, che garantisce tra l’altro il rapporto commerciale privilegiato con la Turchia. Ma Maliki minaccia ritorsioni, non sono escluse le vie militari. È la spada di Damocle che pesa sul miracolo economico e l’esistenza stessa dell’autonomia regionale curda.

Brivido caldo. Da Erbil alla fragilità della politica si risponde però a muso duro, con la forza dirompente dello sviluppo economico. «In Kurdistan abbiamo fatto della stabilità uno status quo. Dal 2003 non è morto uno straniero», dicono al palazzo del parlamento regionale, dove si trovano gli unici muri anti-attentati di tutta la zona, ma ingentiliti con dipinti a motivi floreali. Jalal Talabani, presidente dell’Iraq dal 2005, ma che non ha mai rinnegato la sua identità curda, sostiene orgoglioso che in 9 anni i miliardari di Erbil sono passati da 12 a 2.000. Non trascorre giorno che non vi si installi una compagnia straniera. Di recente ha attirato l’attenzione dei media la nascita della “Pnk”, una cooperativa di taxiste per clienti donne. Sul cofano dei loro taxi hanno scritto “da donne per le donne” in vernice rigorosamente rosa. «Ci chiamano per lo più imprenditrici straniere stanche di essere infastidite dai taxisti maschi in cerca d’avventure», spiega Sara Birzo, la fondatrice 42enne originaria di Duhoq. E a testimonianza delle possibilità di successo rapido per chi ha inventiva c’è la vicenda di Simona Mogani, una ex impiegata dalle Croce Rossa a Ravenna, sposata con un profugo politico curdo, che il 18 di novembre scorso ha aperto “Brivido Caldo”, una gelateria artigianale a Sulaymaniyah, e sostiene di aver già «ammortizzato i costi dell’investimento iniziale». Tanto che ora offre lavoro a giovani italiani: vitto, alloggio e 500 dollari mensili.

Hotel di lusso. Termometro del successo sono gli hotel di qualità. Il governo regionale vorrebbe averne funzionanti 2.500 entro il 2015, per poter accogliere annualmente almeno 1.350.000 visitatori. Da quando, il 2 maggio, Nechirvan Barzani, il nuovo primo ministro della regione autonoma curda, ha inaugurato il Divan, ricordando commosso i 100 milioni di dollari investiti dagli imprenditori di Ankara e Istanbul, nei suoi multipli saloni in marmo pregiato si sono susseguiti concerti, mostre e soprattutto decine di convegni e presentazioni commerciali da parte delle ditte straniere. Al front desk danno il tutto esaurito per le 228 camere distribuite sui 23 piani. Per le cene ai ristoranti con vista panoramica è necessaria la prenotazione. E ciò nonostante i prezzi non siano per nulla incoraggianti. I cento dollari a testa vanno come acqua. Lo stesso vale per i business center della Gulan Avenue proprio di fronte. Nei centri commerciali cresciuti come funghi i prezzi dei prodotti occidentali sono in media più alti del 20-30 per cento che nei negozi europei. Eppure la gente compra. I ragazzini una volta si davano appuntamento al Naza Mall per il caffè. Era un modo per scoprire il mondo del consumismo occidentale, identificarsi con le immagini e i personaggi visti sui film stranieri diffusi dalle televisioni satellitari che Saddam Hussein non riusciva a censurare, visto che dal 1991 l’intero Kurdistan fu sotto l’ombrello delle “no fly-zones” e de facto un protettorato americano. Poi però, dopo l’invasione del 2003, i mall si sono moltiplicati. Sono arrivati il Naza Mall, poi lo Rehin, lo Hawler, Maxi, Majid, Sofi, Banu. Via via, sempre più grandiosi, più ricchi, con la musica diffusa, le scale mobili faraoniche, i giganteschi lampadari a grappolo, con la pista per il pattinaggio su ghiaccio, i ristoranti sempre più esotici. Una sorta di California, o meglio una brutta copia di Las Vegas, con le pacchianate fatte di luci, insegne rosse, rosa, blu e gigantismi sgargianti, ma senza il gioco d’azzardo e la prostituzione così visibilmente alla portata di tutti. L’ultimo in ordine di tempo è il Family Mall, dominato da internet e dalle novità più recenti del meglio della tecnologia digitale. Ci trovi gli iPad avveniristici, le scoperte del post-twitter, le offerte del crescente mercato delle pubblicazioni via rete. E i clienti giovani non mancano. L’Iraq, con il Kurdistan in testa, è un Paese di ragazzini: i suoi circa 26 milioni di abitanti (di cui quasi 5 milioni curdi) per il 36 per cento hanno meno di 14 anni, la metà non sono neppure ventenni. Per loro la rottura con lo sciita Maliki è già un dato di fatto. Saddam Hussein aveva imposto l’arabo come prima lingua nelle scuole. Ma loro non lo capiscono più: parlano solo curdo e inglese.
Lorenzo Cremonesi