Gian Antonio Stella, Sette 15/6/2012, 15 giugno 2012
LÀ DOVE C’ERANO LE MINIERE NASCE IL NUOVO LOUVRE
Luce, luce, luce! Solo i gueules noires, i musi neri che fino a vent’anni fa si calavano nel ventre nero di questa terra nera della “regione nera” potrebbero capire fino in fondo l’abbagliante bellezza trasparente del nuovo Louvre che sarà aperto fra sei mesi nel Nord-Pas-de-Calais, a nord est di Parigi. In quella che per quasi tre secoli è stata la regione mineraria che nei suoi intestini aveva i giacimenti di carbone più importanti della Francia.
Devi vedere i due giganteschi terril di Loos-en-Gohell, che dominano lo sfondo del cielo grigiastro incombendo sulla campagna piatta, per capire cosa significa quel rovesciamento di luce. Fatte le proporzioni, sembrano il Parinacota e il Pomerape, i due vulcani gemelli al confine fra il Cile e la Bolivia, quelle stupefacenti montagne negre costruite ammassando milioni e milioni di tonnellate di rocce e pietrame di scarto estratti via via dalle gallerie.
Tutta la regione è piena di queste montagne artificiali che emergono improvvise. A Loisinord, a una ventina di chilometri da qui, l’antico terril è stato trasformato in una stazione di sci alpino che offre 320 metri di pista artificiale, la più lunga dell’Europa. Ma i monti di Loos-en-Gohell sono i più alti di tutti. E per capirli fino in fondo, frammento su frammento, devi leggere Guido Ceronetti: «Conservo una scheggia di terril: un frammento di proiettile che ha ferito uomini, una traccia di tenebra emersa».
La scelta di portare qui, a duecento chilometri circa dalla capitale, questa nuova creatura del più grande museo del mondo, che nel 2012 avrà entrate proprie (biglietti, merchandising, canoni dei ristoranti e delle botteghe…) per 135 milioni di euro, e cioè una quarantina più degli incassi di tutti musei, i siti archeologici, i palazzi storici italiani messi insieme, nasce una decina di anni fa. Quando il governo decide di avviare un decentramento che attutisca la crescente insofferenza della provincia francese verso l’ingordigia di Parigi. Dov’è concentrato tutto, tutto, tutto.
Dal centro alla periferia. La celeberrima Ena (la scuola nazionale d’amministrazione) apre così a Strasburgo, l’École di amministrazione fiscale a Clermont-Ferrand, il Centre Pompidou si sdoppia in una nuova sede a Metz, in Lorena. Per avere la prestigiosa dépendance del Louvre parte nel 2005 una gara nazionale. I centri che concorrono sono soprattutto del Nord-Pas-de-Calais, che dopo la chiusura dell’ultima miniera avvenuta ventidue anni fa è una delle regioni più povere, la terz’ultima del Paese per reddito pro capite. C’è Marcq-en-Barœul, sulla strada per Roubaix. La stessa Lille, il capoluogo dove nacque il generale Charles de Gaulle. E ancora Waziers, Valencienne, Lens…
È quest’ultima che viene scelta. Adagiata nella pianura a una trentina di chilometri da Lille, 36.540 abitanti, luogo natale di Jean-Baptiste Grison, il padre dell’inno nazionale, La Marseillaise, Lens è simile a tutti i paesotti intorno. Scheletri di torri e di miniere abbandonate, casette tutte uguali di mattoni rossi costruite negli anni del capitalismo paternalista e annerite da decenni di fuliggine, la piccola vita di provincia alla francese: bistrot, boulangeries, charcuterie e le saracinesche chiuse di tanti negozietti spazzati via dall’arrivo dell’Auchan e degli altri ipermercati che hanno stravolto le periferie. Lungo la strada principale è un rincorrersi di negozi uguali: telefonini e parrucchiere, telefonini e parrucchiere, telefonini e parrucchiere…
E poi, lo stadio. Uno stadio immenso, spropositato. Figlio della megalomania nata dalla leggenda di una squadretta di minatori che giocavano appena risaliti dalle viscere delle mines e arrivata nel 1998, miracolosamente, a vincere lo scudetto. Un trionfo che scatenò l’invidiosa ostilità dei “cugini” del Lille (allo stadio del capoluogo, durante il derby, c’erano striscioni così: “Benvenuti agli analfabeti”; “La silicosi, la legionella, a quando la peste?”; “Il terzo mondo a trenta chilometri dall’Europa”) ma più ancora diede alla testa ai dirigenti del Racing Club Lens, ai tifosi e alla squadra, scivolata in un malinconico declino fino a finire nella serie cadetta.
Ed è questo doppio declino, quello delle miniere che a caro prezzo avevano dato un po’ di benessere a migliaia di immigrati italiani, polacchi, spagnoli, marocchini e quello del calcio delle illusioni, che l’operazione-Louvre vuole interrompere.
Nel cuore della città, in uno spazio fino a ieri abbandonato al degrado, è tutto un rombar di camion, ruspe, trattori e un formicolio di operai con l’elmetto giallo di aziende di tutto il mondo, anche italiane come la Goppion e la Permasteelisa, che cercano a ritmi infernali di rispettare i tempi. I lavori, iniziati il 4 dicembre 2009, festa di Santa Barbara, patrona degli esplosivi e dei minatori, devono essere finiti per il 15 agosto quando gli spazi cominceranno ad accogliere le opere dal Louvre. Tre mesi di corsa e poi, il 4 dicembre 2012, a tre anni esatti dalla posa della prima pietra, tutto deve essere pronto per il taglio del nastro con François Hollande.
Progettata dall’agenzia giapponese d’architettura Sanaa con l’apporto della paesaggista francese Catherine Mosbach («L’idea è di unire insieme il dentro e il fuori, cioè il parco») e Adrien Gardere per la parte museale, la struttura è relativamente bassa, adagiata tra i prati e gli alberi («Gli unici per i quali occorre avere pazienza: non c’è efficienza che faccia crescere le piante più in fretta») e ospiterà quattro spazi diversi.
La Grande Galérie. Il primo, cuore del museo, è la Grande Galérie che, come spiega Claudia Ferrazzi, la giovane italiana che a 34 anni e con due bambine piccole da crescere è l’administrateur général adjoint del Louvre, ospiterà «il museo che abbiamo sempre sognato, con un percorso dalle civiltà più antiche al 1848 attraverso oltre 200 opere che oggi sono per l’80% esposte nelle nostre sale. Opere che resteranno a Lens per cinque anni, per poi essere cambiate, a rotazione».
Il secondo spazio ospiterà un grande laboratorio di restauro dove i visitatori potranno vedere gli esperti al lavoro sui capolavori. Il terzo un auditorium da 300 posti per i concerti, i convegni, le opere cinematografiche e teatrali. Il quarto una galleria per le mostre temporanee, integrate con quelle del Louvre: due a Parigi in primavera e autunno, due a Lens in estate e inverno.
Obiettivo: mezzo milione circa di visitatori l’anno. Grazie anche al treno rapido Tgv (un’oretta) e alla vicinanza con il Belgio, l’Olanda, la Germania e la stessa Gran Bretagna, visto che l’Eurotunnel sbocca a Coquelles, a un centinaio di chilometri. Investimento: 200 milioni di euro messi dalla regione Nord-Pas-de-Calais più una quindicina di gestione annuale. Tanti soldi, ma secondo i calcoli dovrebbero mettere in moto un tale indotto (hotel, bed&breakfast, trattorie, bar, negozi…) da portare nel giro di qualche anno a una ricaduta a Lens e nel circondario di un miliardo e quattrocento milioni. Una stima troppo ottimista? Non è detto. Basti ricordare che a Bilbao, nei Paesi Baschi, i soldi investiti nel museo Guggenheim e dintorni secondo un rapporto Kea per l’Unione Europea si sono moltiplicati, nel giro di sette anni, per 18 volte.
«C’è una differenza», spiega prudentemente Catherine Ferrar, l’amministratrice generale, «a Bilbao il museo è arrivato “dopo” l’avvio della rinascita della città, qui arriva “prima”. E non è una differenza da poco. Ma siamo ottimisti. Molto». A dispetto dell’entusiasmo del presidente regionale Daniel Percheron, che ha fortissimamente voluto il Louvre-Lens convinto che metterà in moto una formidabile ripresa dell’area creando “migliaia di posti di lavoro”, oltre ai 67 previsti in organico più i custodi che dipenderanno da una società esterna, i “parigini” hanno trovato in effetti qualche ostacolo iniziale.
Ma come, direte voi, anche se il nuovo museo porterà un’ondata di soldi e turisti e clienti in una zona dove il carbone non dà più da vivere e le grandi fabbriche non sono mai nate e la disoccupazione è intorno al 20% (quella giovanile ancora di più) e la scolarità è piuttosto bassa e la popolazione, piuttosto vecchia, tira avanti con le pensioni guadagnate con tanta fatica dai minatori? Esatto.
I dubbi del sindaco. Dal sindaco socialista Guy Delcourt all’ultimo degli spazzini c’è una qualche diffidenza verso l’operazione Louvre. Certo, lo sanno che può essere una grande opportunità. Ma sono comunque diffidenti. Conservatori. Timorosi che l’arrivo di tutti quei “foresti” possa sconvolgere il loro tran tran quotidiano. Le piccole abitudini. Le pigrizie di un piccolo mondo antico rimasto ancorato a un passato terribile ma insieme glorioso. Quello che si riconosceva nel manifesto: «Devenéz mineur, premier ouvrier de France». Diventa minatore, il primo operaio di Francia!
Un orgoglio nato da battaglie sindacali epiche. Quelle che, come racconta Emile Zola in Germinal, straordinario affresco sulla classe operaia, i “musi neri” urlavano: «La miniera deve appartenere ai minatori come il mare ai pescatori, come la terra ai contadini!» L’orgoglio di chi sapeva di avere un ruolo centrale, come scrive in The road of Wigham Pier George Orwell: «La nostra civiltà è basata sul carbone, ancora più di quanto ci si renda conto. Le macchine che ci tengono in vita e le macchine che fanno le macchine sono tutte direttamente o indirettamente dipendenti dal carbone. Nel metabolismo del mondo occidentale, il minatore è, per importanza, secondo solo all’agricoltore. È una sorta di sporca cariatide sulle cui spalle poggia tutto ciò che non è sporco».
Come non avere rimpianti, per quel mondo in cui l’operaio si inabissava nell’inferno più nero e si ammalava ai polmoni e moriva soffocato sotto i crolli ma sapeva di essere il “fuochista” della società delle macchine in corsa verso il futuro?
È bellissimo, il Louvre-Lens. Bellissimo. E con quella luce che invade ogni spazio e quel verde e quell’acqua tutto intorno e quei soffitti alti, là dove i nostri nonni lavoravano con il piccone sotto soffitti di un metro, e quel silenzio, là dov’era il fracasso dei trapani e della dinamite, rappresenta il più luminoso degli omaggi ai neri eroi del buio.
È una lezione anche per noi italiani: perché, invece che buttare soldi di accanimento terapeutico per fare rivivere aree industriali cadaveriche, non puntiamo di più su di noi, l’arte, l’intelligenza, la bellezza?
Gian Antonio Stella