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 2012  giugno 15 Venerdì calendario

UN PAESE (SERIO) NON FA LE CORNA


«Benedetto Croce stava con Matilde Serao, suonarono, entrò il cameriere: “Professo’, ci sta “chillo”. “Chillo chi?” “L’Innomminabbile!”. “Hiiih!”, fece Croce. E si toccò. Al che la Serao, allungando la mano: “Professo’, permetta che anch’io...”». Emilio Colombo, per giustificare la propria prudenza scaramantica, tira sempre in ballo il grande intellettuale napoletano al quale viene attribuita, vera o falsa che sia, la seguente battuta: «La jella non esiste e se avessi tempo potrei scrivere due tomi per dimostrarlo. Ma siccome il tempo non ce l’ho, facimme ’e corna».
Da decenni circolano aneddoti irresistibili su Enrico De Nicola che aveva un segretario sempre vestito a lutto e con la gobba e faticava a muoversi il venerdì 13 e cambiava federa alle borse nuove rimettendoci quella che aveva nella borsa di giovane avvocato alla prima udienza. Su Giovanni Leone che ammoniva: «Guaglio’, la jella è cosmica. Se un indiano, domattina, si alza coi lapis a quadriglé la sua maledizione può arrivare fino in Quirinale». Su Giovanni Gronchi che sull’aereo presidenziale aveva fatto rimuovere tutti gli specchi e specchietti per non correre il rischio che qualcuno si rompesse. Perfino Benito Mussolini, scrive Giulio Castelli nel libro Il Vaticano nei tentacoli del fascismo era «superstizioso come una donnicciola».

Un ufficio contro il malocchio. Va da sé che, dopo avere assistito alle corna berlusconiane al vertice di Caceres e a certe sedute parlamentari come quella in cui il leghista Cesare Rizzi se la prese con l’allora ministro dei trasporti Claudio Burlando («Io non sono superstizioso, ma comincio a pensare che lei è un menagramo, una persona iellata. Da quando lei è ministro, ogni giorno un incidente») e all’istituzione nel comune di Aulla, da parte dell’onorevole Lucio Barani di un «Ufficio comunale contro il malocchio», non ci possiamo stupire se perfino un uomo sobrio quasi per antonomasia, come Mario Monti, si allinea. «Ho paura dei gatti neri che attraversano la strada. Specie se provengono da sinistra. Non me ne chieda la ragione, ma è così», spiegò a Stefania Rossini. «E quando accade che cosa fa?». «Mi fermo e aspetto che qualcuno, passando prima di me, si prenda il carico di irrazionale sfortuna di quel povero gatto».
Fin qui, per carità, ognuno è libero di credere a ciò che gli pare. Anche alle fattucchiere (purché non le bruci), agli «schiattamuorti» e al principe che si fa rospo. Purché queste superstizioni non incidano sulla vita di tutti. Come è accaduto in questi anni col rifiuto di discutere di una possibile eruzione del Vesuvio, di un possibile terremoto in Calabria, di una possibile alluvione devastante in qualche città d’arte esclamando: «Hiii! Vogliamo portare sfiga?».

Tyche, dea della fortuna. Basta. Un Paese serio, se fosse esposto come il nostro al rischio di 17 frane e 10,5 alluvioni con 86 morti in media ogni anno, non toccherebbe il cornetto di corallo ma metterebbe ordine nel corso dei fiumi e dei torrenti sottoposti a lavori spesso demenziali. Un Paese serio, se avesse come dice Legambiente 6.600 comuni italiani su poco più di ottomila «a elevato rischio per alluvioni, frane e valanghe» non si affiderebbe solo alla Madonna di Monte Berico o alle reliquie di San Gennaro ma troverebbe i soldi per portare a termine finalmente la Carta Geologica 1:50.000 che, iniziata nel 1988, ha visto finora una settantina di fogli completati e 255 iniziati su 652 previsti, in 24 anni. Un Paese serio, se avesse oltre 2.500 comuni in aree a medio o elevato rischio sismico e solo il 14% delle abitazioni edificate tenendo conto del pericolo di terremoti, non farebbe le corna ma avvierebbe un censimento della situazione per poi mettere in sicurezza tutto ciò che è possibile. Ricavandone anche una spinta alla ripresa economica. Se poi Tyche, la dea greca della fortuna, ci desse un po’ una mano sarebbe la benvenuta. Dopo tutto il resto, però. Dopo.