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 2012  giugno 15 Venerdì calendario

IL RITORNO DI VILLAGGIO


ROMA - La sola parola che lo intristisce è nostalgia. «Perché mi piacerebbe aver fatto qualcosa di più, aver messo più impegno nell’educare i figli. Le energie le ho dedicate a far fortuna, però i miei figli forse hanno sottovalutato lo sforzo che ho fatto». Per il resto Paolo Villaggio si avvia verso gli 80 (il 30 dicembre) senza troppi rovelli, divagando con allegra intelligenza tra i racconti epici della sua avventurosa carriera, e quello che ancora fa: l’ultimo film di Antonio Albanese dove interpreta un politico pazzo che divora cioccolatini, il nuovo Fantozzi appena uscito in libreria, il teatro,
La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca,
che presenta una, due volte al mese. E quanto alla vecchiaia che almeno gli consenta la stramberia di vestire solo caffettani, come questo bianco che indossa di prima mattina nello studio di casa, vicino a villa Ada a Roma, con la finestra che dà sul giardinetto, le pareti zeppe di libri, dal Corano a Kafka, da Shakespeare a Calvino, e i tavoli affollati di foto: lui e Fellini, lui e Olmi, lui e Gassman, Monicelli, Tognazzi, Fabrizio De André, la moglie Maura, una signora bella e spiritosa.
Sono quasi 50 anni da quando nasceva l’epica comica dei suoi Fracchia, Krantz e poi Fantozzi. Da allora Villaggio ha girato oltre ottanta film, scritto dieci libri tradotti in molti paesi. Ed è soddisfatto solo se non si parla dell’Italia. «Sono di una generazione che non riuscirà a vedere il cambiamento di questo paese dove la gente non paga le tasse e dove i sindacati hanno creato il mito del posto fisso che ha fermato il lavoro per i giovani».
E che dice dei grillini?
«Sono come il movimento di Giannini, il qualunquismo che negli anni Settanta diceva di non pagare le tasse perché chi ci governava erano tutti ladri. Grillo dice le stesse cose. Il problema vero è che tutta l’Europa vive una fase di eclisse. Noi siamo qui a perder
tempo, e a Shanghai vanno avanti. Adesso tocca a noi decadere».
Parla anche di questi temi nello spettacolo?
«Mah, vado a ruota libera. Parlo di Genova, lucciole, Pasolini, teatro... ».
Cos’è per lei il teatro?
«Un dormitorio. Pubblico giovane non ne vedi. Ci sono le vecchie, quasi tutte vedove, la linfa delle nostre serate. Donne che si sono rese conto di aver vissuto 40-50 anni all’ombra di un uomo: disperate ai funerali, dopo 3 mesi le vedi rinate. Capiscono di aver vissuto una vita inutile e cominciano a fare quello che non hanno mai fatto: mangiano la notte, si divertono, escono. Quando lavoravo sulle navi, e Berlusconi faceva il cantante, le donne partecipavano a tutto, sono la salvezza di noi animatori, mentre i mariti l’unica cosa che sanno fare è ammazzarle di botte. Ma questo è un fatto culturale ».
Le piace ancora lavorare?
«Non mi piace aver perso certe qualità, prima fra tutte la memoria. Mentre sono fiero di quello che ho fatto: dopo il film con Fellini ho preso un mucchio di premi e, oltre agli amici di sempre, mi sono guadagnato pure gli apprezzamenti della casta: i letterati, gli Arbasino, i Moravia... che prima nemmeno mi vedevano».
Colpa di Fantozzi?
«È un peccato tutto italiano
considerare la cultura popolare una cosa di serie B. È la spocchia della cultura da liceo classico».
Ma lei cosa ha studiato?
«Liceo classico Doria a Genova. Ci si vedeva sul muretto dei bagni lido, benpensati di destra e comunisti sfegatati, e chi non aveva letto Kafka era guardato con commiserazione. Quella generazione ha studiato l’Iliade a memoria. Pazzi ».
Se la ricorda?
«Per forza, perché mio fratello gemello era il più pazzo di tutti. Giocava al calcio e decideva di non parlare. Però giocava declamando: “Cadde il ferito nella sabbia e altero sclamò sovr’esso il feritor divino...”. A fine partita l’arbitro, i giocatori, i guardalinee e anche qualcuno del pubblico l’avevano imparata con lui».
Che c’entra Fantozzi con questa sua vita?
«Mi secca dirlo, ma è stato mio padre a illuminarmi sulla mediocrità umana e di certa cultura europea. Lui ce l’aveva con chi non leggeva niente e viveva di sola commedia all’italiana. La stessa Italia che oggi va a Ibiza a fare vacanze d’inferno per imitare calciatori e veline. O a Cortina dove d’estate alle 11 al bar Posta si forma una tribù di guardatori che viene a vedere quelli che sono lì a farsi vedere... Anch’io vado in vacanza a Cortina, ma ci vado a ottobre quando i cortinesi sono ai tropici».
Le piacerebbe che Fantozzi occupasse un posto nella letteratura?
«Un po’ sì. Fantozzi è un Pinocchio più bello di Alice. Come lui è stato scritto per i ragazzi e come il burattino ha qualcosa di atipico, di surreale, tipico della letteratura per l’infanzia
».
L’ultimo libro appena pubblicato da Mondadori è
Tragica vita del ragionier Ugo Fantozzidove
per la prima volta ne racconta la nascita in via Sardegna a Genova, l’adolescenza...
«Mi piaceva costruirgli un passato, e un futuro fino al giorno in cui scompare».
Fantozzi muore?
«Non direi, è un libro allegro. C’è uno che lo va a trovare, che poi sarei io. Finalmente ci incontriamo. Gli chiedo se è felice e lui risponde alla Fantozzi: “Sono l’unico al mondo che ha nostalgia per un periodo terribile. Tutte le sere al tramonto mi siedo sul davanzale e penso se dov’era la megaditta piove o c’è il sole. L’unico ad avere nostalgia per una vita inutile”. E finisce. Fantozzi se ne
va perché invecchia».
Ma quanti anni ha?
«Nel libro 80».
Come lei...
«Ma non sono io. Non ho la mediocrità di Fantozzi, lui accetta tutto, non si oppone al potere, fa vacanze infernali...».
Dal ’71 a oggi non le ha mai fatto pietà?
«Semmai rabbia per l’insulsaggine, l’inutilità, la rassegnazione».
Ma è lei che l’ha fatto così imbelle. È crudele.
«Intollerante. Ma mi dà troppo fastidio quel niente assoluto, come quelli che parlano solo di calcio ».
Allora questo libro è un addio a Fantozzi o no?
«Non so che dirle. Non vorrei che per avidità, prima o poi...».