Emanuela Fiorentino, Panorama 20/6/2012, 20 giugno 2012
Il Re solo – Parlare della solitudine di Mario Monti è come tornare a sette mesi fa. Un balzo alla fine del«Cavalierato», a metà novembre: quando si festeggiava l’arrivo del professore, sicuro arginatore di spread, ma soprattutto la solitudine dì un altro premier, Silvio Berlusconi
Il Re solo – Parlare della solitudine di Mario Monti è come tornare a sette mesi fa. Un balzo alla fine del«Cavalierato», a metà novembre: quando si festeggiava l’arrivo del professore, sicuro arginatore di spread, ma soprattutto la solitudine dì un altro premier, Silvio Berlusconi.Quella da novembre a oggi è la cronaca di un amore intenso fra il cuore degli italiani (il 71 per cento) e l’eurocrate della Bocconi sbarcato su un Paese afflitto da mille problemi, a cominciare dalla paura per il futuro. E se ogni passione ha il destino segnato, tra il capo del governo e l’Italia sta andando come doveva andare: in discesa (ora è amato, dicono gli ultimi dati della Swg, dal 34 per cento). Fino alla riforma delle pensioni, un mese dopo l’insediamento, e poi all’esplosione dei malumori e al primo pasticcio degli esodati, la maggioranza politica del governo di a-politici ha tenuto compatta. Ma la vera svolta è arrivata in marzo, con il disegno di legge sul mercato del lavoro. Da destra e sinistra è questa a essere bollata come la vera fuga in avanti di Monti, fuga che, a fronte di grandi tensioni sociali, secondo i suoi detrattori ha prodotto un articolo 18 banalmente scalfito e un sistema di ingresso (all’occupazione)più rigido. Insomma, tanto rumore per nulla.Con uno spread pericolosamente alta-lenante e i conti dello Stato sempre più in bilico, si è cominciato a consumare anche il divorzio dai cosiddetti poteri forti. «I partiti e il sindacato hanno iniziato a rivendicare,l’opinione pubblica internazionale a dubita-re» analizza Gaetano Quagliariello, vicepresidente dei senatori pidiellini. «E restando attaccato ad Angela Merkel, una delle sue poche certezze. Monti ha scelto di tentare il lascia o raddoppia, cioè di giocarsela fino infondo. Vedi le nomine sulla Rai, dove rischia di fare la furia francese e la ritirata spagnola perché ha sbagliato le procedure».Ma proprio nella scelta tra lui e il falli-mento dello Stato sta la chiave della sua solitudine. Se Monti venisse sfiduciato, dice un altro senatore del centrodestra, all’istante lo spread schizzerebbe oltre i 500 punti e la pri-ma asta di Bot andrebbe deserta. Insomma, il senso di responsabilità, nel Pdl come nel Pelo nel terzo polo, indurrebbe a sorvolare sui pochi o tanti difetti del Monti premier e del Monti governo. Soprattutto nel momento in cui il governo è a metà del guado. Mancano sette mesi allo scioglimento delle Camere,previsto per il 15 febbraio. «Abbiamo poche settimane di tempo per salvare l’Italia» sinte-tizza Mano Baldassarri, economista del Fli, viceministro dell’Economia nel primo governo Berlusconi. «Io spero che Monti chiami allo scoperto i partiti e faccia le riforme, anche da solo». Ancora: «Le pensioni, nel bene e nel male, sono andate, le liberalizzazioni hanno dato un messaggio debole e sul mercato del lavoro l’uscita è stata pasticciata e mediata.Non ho visto tagli di spesa e di tasse. Anzi,sulla crescita ho visto due ministri litigare per 120 milioni d’incentivi».Il decreto sviluppo di Corrado Passera,stoppato l’8 giugno dalla Ragioneria gene-rale (la bozza è stata anticipata martedì 12 giugno), tocca un nervo scoperto: il tasso di litigiosità nell’esecutivo. Di frizioni si può fare una discreta lista di esempi. Come la nomina di Enrico Bondi a commissario per la razionalizzazione della spesa, che avrebbe fatto innervosire non solo il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, incaricato numero uno alla spending review, ma tutti i colleghi con portafoglio a cui sono stati dati i compiti a casa per i tagli. O, in maniera simile, la designazione, mal digerita da Passera, del bocconiano Francesco Giavazzi come consulente alle imprese. O ancora la rumorosa frizione di Monti con Antonio Catricalà, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che qualche settimana fa s’è visto bocciare senza tanti complimenti la sua bozza di riforma della giustizia disciplinare. L’ultimo incidente è quello sugli esodati: 392.500 per l’Inps e 65mila per il ministro del Lavoro, Elsa Fornero. La frizione con il ministro potrebbe incrinare il rapporto tra il commissario Bondi e il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, caldeggiato invece dal premier nella convinzione che il modello dell’istituto sia esportabile ad altre amministrazioni dello Stato. In Consiglio dei ministri l’aria è tesa. All’ordine del giorno molti battibecchi e troppi «così non si può andare avanti». L’impressione è che Monti non «condivida» più con la squadra. Si è imposto alla fine su Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri, perla vicenda dei marò arrestati in India; così come si è rabbuiato col viceministro dell’Economia Vittorio Grilli, a metà aprile, perché non gli aveva sottoposto in tempo reale i dati Ocse (più negativi del previsto) sul pil. Tra Fornero e Filippo Patroni Griffi, ministro perla Funzione pubblica, divisi dalla possibilità di licenziare i lavoratori statali, si è messo su una posizione mediana. E non sono pochi, all’interno del governo,a imputare a Monti di avere creato un teamtroppo ristretto di collaboratori fidati, una sorta di cabinet all’inglese solo con Enzo Moavero Milanesi, ministro per gli Affari europei, Federico Tornato, vicesegretario generale di Palazzo Chigi, e la stessa Fornero. Alla quale Monti perdona qualche intemperanza di troppo, in nome dell’affetto «storico» che lo lega a lei. Dicono che un giorno di diversi anni fa, di fronte al sorriso complice del marito Mario Deaglio, anche lui economista, ascoltando Monti indugiare sulle strutture finanziarie, così scherzò Elsa:«Ho sposato il Mario sbagliato...». «Con il resto della squadra» racconta a Panorama un uomo chiave dell’esecutivo «i rapporti sono più complessi». Basti pensare ai mal di pancia di Grilli, che aspetta la nomina a ministro da quando il suo vecchio ruolo di direttore generale del Tesoro è stato coperto da Vincenzo La Via. Era stato Monti, il 18 aprile, a lasciarsi sfuggire: «Il viceministro Grilli, ma vorrei dire il ministro». Legittimato dal Quirinale (che secondo i retroscenisti avrebbe appena consigliato a Monti un maggiore decisionismo stile Rai) e dall’Europa, il premier non cammina più sulle acque, questo è chiaro. Chi lo detesta, ma anche chi lo ama, lo descrive come un solitario cui piace essere solo: un uomo che non ama la condivisione. Portato, nelle delicate fasi della mediazione, più a spiegare che ad ascoltare. Insomma, lontano. Anche dall’economia reale del Paese, secondo i cosiddetti poteri forti, che gli imputano una diagnosi parziale della crisi, la mancata percezione del suo aspetto nascosto, quello che va oltre deficit e debito e che riguarda, per esempio, i meccanismi di accumulazione bloccati e il rischio, a forza di strette finanziarie, di un avvitamento senza ritorno verso la recessione. Perfino l’Udc, il partito che «per contratto» non può lamentarsi del governo, al suo interno ragiona così: siamo impallati sulla strada delle riforme. Anche se il leader, Pier Ferdinando Casini, a Panorama ricorda: «Tutti i leader sono soli e nei momenti difficili la gente ti abbandona. Io lo sperimento sulla mia pelle: ho alcune persone civetta che quando si avvicinano mi fanno capire che tutto va bene; quando si allontanano, mi avvertono che qualcosa è cambiato». Ma come risponde il capo del governo alle critiche? Secondo i più,con il tipico atteggiamento dell’anti-politica. Di fronte a un j’accuse, Monti ha bisogno di forzare: abbandona la dialettica, va in tilt. Non è escluso che in alcuni momenti di particolare sofferenza personale abbia anche pensato di mollare. Ma l’uomo è forte. «Non penserà che tutto gli sia dovuto in termini di rispetto e subalternità?» si domanda il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, ancora stordito dal «fuor d’opera» delle nomine Rai. Dal lato opposto Nicola Latorre, senatore pd, pensa che la battuta d’arresto alla luna di miele con il Paese coincida appieno con la crisi del Pdl, «un elemento che indebolisce oggettivamente il governo». Ma anche nel partito di Pier Luigi Bersani il sostegno è difficile. «Ha deluso le aspettative» dice Matteo Orfini, responsabile cultura e informazione del Pd. «Monti e i suoi ministri hanno dimostrato scarsa comprensione del dolore. Si preoccupano dei poteri forti e non pensano ai poteri deboli. Forse è frutto dei loro mondi di provenienza, lontani dal paese reale. Seti dimentichi 320 mila esodati, non puoi fare il barone con il ditino alzato».Fatto sta che mancano solo 245 giorni alla fine dell’avventura. Che fare? I riflettori sono accesi sul vertice Ue del 28 giugno, dove si decideranno misure come la ricapitalizzazione della Banca europea per gli investimenti, con altri 10 miliardi, e il varo dei project bond. E dove è possibile che si decida di allentare i vincoli di finanza pubblica. «Se il 28 Monti riesce a fare passi in avanti, si è guadagnato pranzo e cena» sostiene un esponente dell’esecutivo «ma se va male si galleggia fino a febbraio,cercando di sopravvivere. Spending review prima dell’estate, misure di rilancio sul piano internazionale, applicazione della riforma sul lavoro, aumento, della competitività: lo staff dei tecnici, ora, vuole portare a casa questi risultati. Mantenendo fermo il deficit strutturale, utilizzando i margini garantiti dal «fiscal compact» e saltando (obiettivo assai complicato) l’aumento di 2 punti dell’Iva a partire da settembre. Si va avanti a piccoli passi, fanno sapere da Palazzo Chigi, senza illudere gli italiani. I quali ormai hanno capito che, più che a Roma, l’agenda viene dettata all’estero. Dove certamente Monti si sente meno solo.