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 2012  giugno 21 Giovedì calendario

[2 articoli] Petrolio made in Usa Gli americani diventeranno i secondi produttori entro il 2020. Preceduti solo dall’Arabia Saudita

[2 articoli] Petrolio made in Usa Gli americani diventeranno i secondi produttori entro il 2020. Preceduti solo dall’Arabia Saudita. Ecco come la rivoluzione dello shale oil sta per cambiare la mappa della produzione mondiale– Willinston, Nord Dakota, è una cittadina di 15 mila abitanti in mezzo al nulla come gran parte dello stato di cui è parte. Ricco di una natura affascinante ma aspra e inospitale, battuto da inverni in cui le temperature possono arrivare a meno 40 gradi. Fino a pochi anni fa, Willinston era una città di cui nessun americano conosceva l’esistenza, a parte qualche geologo, e il Nord Dakota non era sulla mappa dei luoghi da visitare né faceva notizia nelle statistiche nazionali. Ma in due anni tutto è cambiato. Oggi il Nord Dakota è il primo stato americano per crescita di occupazione e Prodotto interno lordo, e per solidità del bilancio. E a Willinston, epicentro del cambiamento, i prezzi degli affitti sono quadruplicati, nonostante siano sorte come funghi centinaia di orribili case prefabbricate per accogliere i nuovi pionieri dell’ultima frontiera americana: il petrolio. Sì, perché Willinston e l’intero Nord Dakota siedono su uno dei più grandi giacimenti di petrolio mai scoperti sulla terra, quello di Bakken/Three Forks, da cui è partita una rivoluzione, ancora silenziosa, che sta investendo tutta l’America: la rivoluzione dello shale e tight oil. Questi termini criptici indicano formazioni geologiche formate da rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla (quando l’argilla è dominante, si parla di shale) che contengono petrolio convenzionale di ottima qualità (leggero e con poco zolfo), fino a pochi anni fa destinato a rimanere intrappolato sottoterra a causa della bassissima porosità e permeabilità della sua prigione rocciosa. Ma la combinazione di due tecnologie (la perforazione orizzontale dei pozzi e la loro fratturazione idraulica, o "fracking", ottenuta "sparando" acqua, sabbia o ceramica e agenti chimici all’interno del pozzo) ha alterato le leggi della natura: una parte del petrolio contenuto nei giacimenti a shale o tight oil si è liberato, aprendo una nuova corsa all’oro (nero) degli Stati Uniti. La produzione di shale oil in Nord Dakota (in realtà, il giacimento di Bakken è formato da tight oil, per quanto venga chiamato Bakken shale) è balzata da niente nel 2006 a quasi 700 mila barili al giorno (bg) ed è in continua crescita: più di quanto non produca oggi il più grande giacimento del Kuwait. Nel frattempo, piccole e medie società petrolifere si sono messe a caccia di permessi in ogni parte del paese in cui vi fossero giacimenti conosciuti di shale o tight oil, mandando alle stelle il prezzo dei terreni agricoli. Il fatto è che di questi giacimenti ce ne sono molti, almeno una ventina, alcuni di dimensioni paragonabili a quello di Bakken/Three Forks. è il caso di Eagle Ford, in Texas, subito diventato la seconda meta della corsa al nuovo oro nero, che oggi produce oltre 300 mila bg di greggio tight, mentre non ne produceva un solo barile nel 2010. E poi ci sono i giacimenti del Permian Basin (Texas), di Utica (Nord-est), Niobrara (Colorado) e altri ancora. Ovunque l’attività si è fatta frenetica, con centinaia di pozzi perforati ogni settimana. Grazie a questa rivoluzione, secondo i miei calcoli, gli Stati Uniti potrebbero diventare il secondo produttore al mondo di petrolio entro il 2020, tallonando da vicino l’Arabia Saudita. Infatti, partendo da un potenziale di oltre 6 milioni di bg e scontando tutti i fattori di rischio, la produzione di shale e tight oil gli Stati Uniti potrebbe superare i 4 milioni entro questo decennio: più del doppio di quanto produceva la Libia prima della caduta di Gheddafi, più di quanto produce oggi l’Iran. E gran parte di questa produzione è redditizia anche con prezzi del petrolio di 50-65 dollari a barile. Numeri esorbitanti, che stanno costringendo il presidente Barack Obama a rivedere le sue posizioni sul petrolio, inizialmente tiepide se non ostili. In una fase di crisi economica la corsa allo shale e tight oil è diventata il singolo fattore di crescita economica e occupazione più forte per gli Stati Uniti, con effetti a cascata su molti settori. Questa epifania ha messo in secondo piano gli aspetti più controversi del nuovo boom, legati soprattutto alla fratturazione idraulica e all’impiego di agenti chimici. Secondo le accuse, le tecniche impiegate per l’estrazione di petrolio e gas da formazioni shale potrebbero provocare l’inquinamento delle falde acquifere, l’infiltrazione di metano nei pozzi d’acqua, e perfino terremoti. Oltre a utilizzare troppa acqua. L’eco di queste preoccupazioni ha raggiunto l’Europa dove la Francia ha vietato il "fracking", mentre altri paesi stanno pensando di farlo. Tuttavia, i casi documentati di danni all’ambiente sono pochi: su oltre un milione di operazioni di "fracking" negli Stati Uniti dal 1947 (anno in cui la tecnologia fu usata per la prima volta) a oggi, ve ne sono solo qualche decina, probabilmente legati all’impiego di pratiche non corrette di perforazione da parte di piccoli pionieri. Quanto ai terremoti, se ne sono registrati alcuni in Ohio alla fine del 2011, in aree dove si effettuava "fracking". La coincidenza si è tradotta in un’accusa ancora da dimostrare, che tuttavia non riguarda l’attività petrolifera. La fratturazione dei pozzi in Ohio è mirata a stoccare acque reflue provenienti da molte parti degli Stati Uniti. Un’attività che comporta qualche rischio in più di quella petrolifera, poiché le acque "sparate" sotto terra, in teoria, possono provocare un distacco delle faglie e il loro scivolamento, facendo tremare la terra; al contrario, nell’attività petrolifera è indispensabile impedire che le "fratture" provochino movimenti e implosioni nelle rocce perforate, pena, oltre al rischio di piccoli terremoti, la perdita del petrolio e gas. La sabbia e gli agenti chimici utilizzati dai petrolieri nella fratturazione idraulica servono proprio a questo. Comunque, anche quanto avvenuto in Ohio rimane un caso isolato in una storia ormai decennale di fratturazione idraulica. L’uso di acqua nel fracking, infine, è limitato all’1 per cento di quella disponibile negli stati dove la rivoluzione dello shale oil si sta dispiegando: lo spreco vero, anche là, è nell’uso smodato di acqua per attività agricole (ovunque superiore al 35 per cento) e civili. Valutando i rischi e i benefici, l’amministrazione Obama ha deciso di non porre ostacoli allo sviluppo del fracking e si prepara ad aprire ancor più le porte alla rivoluzione del petrolio a stelle e strisce, favorendo tra l’altro la costruzione di oleodotti, osteggiati da gruppi ambientalisti, senza i quali il petrolio americano resterebbe senza sbocchi. Ci vorrà del tempo, probabilmente dovranno passare le elezioni perché ciò avvenga. Ma avverrà. Sarà difficile che qualcuno fermi la nuova rivoluzione. La combinazione di perforazione orizzontale e fracking, infatti, può consentire di estrarre molto più greggio anche da giacimenti tradizionali da cui oggi si riesce a estrarre in media soltanto il 35 percento del petrolio. L’unico vero limite alla rivoluzione è una questione di conoscenze e mezzi. Solo negli Stati Uniti esiste un numero sufficiente di tecnici in grado di operare correttamente la fratturazione idraulica; solo negli Stati Uniti esistono mezzi di perforazione sufficienti a operare la fratturazione idraulica su vasta scala. Aspetto chiave, questo, poiché i giacimenti richiedono una perforazione intensiva per mantenere e aumentare la propria produzione rispetto ai giacimenti tradizionali. n È in arrivo un’onda nera di Leonardo Maugeri In dieci anni l’offerta di petrolio esploderà. Grazie a investimenti record. Purché il prezzo resti sopra i 70 dollari La produzione mondiale di petrolio crescerà in questo decennio a ritmi impressionanti, rischiando di generare un collasso dei prezzi del greggio. È quanto rivela l’analisi puntuale degli investimenti globali - giacimento per giacimento - e degli obiettivi produttivi di ogni singolo progetto: poco più di 50 milioni di barili al giorno (mbg) di petrolio sono in corso di sviluppo a livello globale da qui al 2020, cioè più della metà dell’attuale capacità produttiva mondiale (pari a circa 93 mbg). Solo una parte di questo "nuovo" petrolio arriverà sul mercato in questo decennio. Ma anche scontando il peso dei tanti fattori di rischio e il declino produttivo dei giacimenti esistenti (meno marcato di quanto sostenuto da molti), il mondo potrebbe disporre di circa 110 mbg di petrolio nel 2020: un incremento di 17 mbg rispetto alla capacità attuale che rappresenterebbe il più grande balzo in avanti nella disponibilità di petrolio dal 1980 a oggi - possibile se i prezzi del petrolio si manterranno sopra i 70 dollari a barile. Sostenuta da un ciclo di investimenti che non ha pari nella storia dell’industria petrolifera, la crescita avverrà ovunque, anche se quattro paesi presentano il potenziale più rilevante: Iraq, Stati Uniti, Canada e Brasile. Un fatto del tutto nuovo, poiché ben quattro di questi paesi appartengono all’emisfero occidentale, e solo uno (l’Iraq) al tradizionale centro di gravità del petrolio mondiale, il Golfo Persico. Quello che più colpisce, tuttavia, è l’esplosione della produzione petrolifera statunitense. Grazie alla rivoluzione innestata dall’uso combinato di tecnologie come perforazione orizzontale e fratturazione idraulica, gli Stati Uniti hanno cominciato a sfruttare i loro immensi giacimenti di petrolio contenuti in formazioni scistose (shale e tight oil), dopo aver fatto lo stesso con il gas naturale. Già oggi, le produzioni di shale oil sono in crescita esponenziale, e nel 2020, potrebbero consentire agli Stati Uniti di diventare il secondo produttore di petrolio al mondo dopo l’Arabia Saudita. Quella americana è la più grande rivoluzione tecnologica verificatasi nel mondo del petrolio da decenni a questa parte. Ma le conseguenze complessive della nuova età dell’oro del petrolio sono ben più vaste, investendo la politica, l’ambiente e l’economia. Per esempio, l’emisfero occidentale potrebbe diventare auto-sufficiente entro il 2020 e diventare la nuova frontiera del petrolio mondiale. Il Golfo Persico sarebbe attratto nell’orbita asiatica (il suo mercato d’elezione) e, soprattutto, della Cina, che sta già cercando di mettere piede in tutte le aree strategiche per il futuro del petrolio, a partire da Canada, Venezuela e Stati Uniti. La rinascita produttiva dell’Iraq, inoltre, potrebbe creare notevoli tensioni all’interno dell’Opec, alle prese con la difficile gestione dell’eccesso di liquidità petrolifera, provocando conflitti tra i suoi membri. La nuova prosperità petrolifera richiederà anche diverse politiche ambientali, che dovrebbero imperniarsi più sugli investimenti per rendere più "verde" il petrolio che su nuove leggi e regole. Tuttavia, più petrolio non significherà meno energie rinnovabili: per quanto sfugga a molti, infatti, le rinnovabili non competono con il petrolio (con l’eccezione dei biocarburanti), ma con carbone, gas naturale e nucleare. Infine, la rivoluzione investirà anche i prezzi. La domanda di petrolio langue, sia per l’instabilità economica mondiale, sia per le leggi che ne impongono un consumo più efficiente e per l’avvento di nuove tecnologie che lo consentono. Di converso, l’offerta di petrolio continua a crescere, e già oggi supera la domanda: solo le tensioni internazionali (Iran) le cattive informazioni di mercato mantengono i prezzi elevati. In queste condizioni solo una drammatica crisi internazionale o una crescita della domanda annua di greggio superiore all’1,6 per cento da qui al 2020 (non facile da materializzarsi) potrebbero evitare l’inevitabile, cioè un forte discesa - o addirittura un collasso temporaneo - dei prezzi dell’oro nero. I dati e le analisi citati in questo e nel precedente articolo sono frutto di uno studio di prossima pubblicazione condotto dall’autore per la Harvard Kennedy School of Government