MASSIMO MELOTTI, La Stampa 15/6/2012, 15 giugno 2012
Se non vedi l’arte puoi sempre immaginarla - Ci sono artisti che hanno sondato nelle loro opere l’invisibile sia come concetto che come linguaggio espressivo, quindi senza che l’«opera» sia necessariamente visibile
Se non vedi l’arte puoi sempre immaginarla - Ci sono artisti che hanno sondato nelle loro opere l’invisibile sia come concetto che come linguaggio espressivo, quindi senza che l’«opera» sia necessariamente visibile. A loro è dedicata la mostra «Invisible: Art about the Unseen 1957-2012», aperta da martedì scorso al 5 agosto alla Hayward Gallery, a cura del direttore Ralph Rugoff. Presentare una rassegna di cinquanta lavori all’insegna dell’invisibilità può sembrare un azzardo. Percorrere un labirinto inesistente, seguendo le istruzioni in cuffia come propone Jeppe Hein o entrare in uno spazio stregato dall’incantesimo di una maga o ancora estasiarsi di fronte a un foglio di carta bianca che l’artista, Tom Friedman, ha fissato per mille ore nell’arco di cinque anni, creerà nel pubblico, quanto meno, qualche perplessità. Una provocazione? Forse. In realtà l’arte cosiddetta invisibile fa parte di un lungo percorso. Walter Benjamin con il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica , aveva colto l’unicità dell’opera d’arte, della sua «aura» e di come questa venisse messa in discussione dal nascere della società dei mass media. Un tema questo fondamentale che torna di attualità proprio nel momento in cui ci si appresta ad un’altra grande mutazione: quella del virtuale. La visione preconitrice di Benjamin viene riproposta in Aura e choc . Il volume, edito recentemente da Einaudi, curato da Andrea Pinotti e Antonio Somaini, raccoglie i principali studi del filosofo su arte e media. Se l’aura dell’opera d’arte si è sublimata nella sua serialità, a noi è rimasto lo choc a cui ci costringe la modernità. Le arti visive di fronte alla fotografia, al cinema e poi ai nuovi mass media hanno privilegiato il «concetto» rispetto alla rappresentazione della realtà. Da qui nasce quel filone della ricerca artistica, che si colloca in parte nell’ambito della grande tendenza concettuale, e in cui la componente visibile dell’opera non è determinante o è stata abbandonata. Sulla forma prevale il concetto o il processo creativo, sino alle estreme conseguenze dell’invisibile. Sono presenti in mostra artisti di varie tendenze, che dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, hanno operato in questo ambito: da Art & Language a Robert Barry, da Chris Burden, al nostro Maurizio Cattelan, da Tom Friedman a Carsten Höller, da Yves Klein a Yoko Ono (senza dimenticare Andy Warhol) solo per fare qualche nome. Ralph Rugoff vuole dimostrare che l’arte non tratta di oggetti materiali ma interviene sulla nostra immaginazione. Pertanto si richiede al visitatore una partecipazione particolare non più limitata allo sguardo, ma aperta al coinvolgimento e alla suggestione. Un antesignano dell’invisibile è ad esempio Yves Klein di cui in mostra sono presentati disegni di architettura, lavori e documentazione di Le Vide. Per il suo intervento a Parigi, Klein aveva allestito una sala della galleria completamente vuotacon le pareti verniciate di bianco e una bacheca vuota. Il vuoto accoglie l’energia creativa e ne esalta il gesto artistico. Al vernissage partecipano tremila persone tra cui Albert Camus che scrive sul libro delle presenze «Con il Vuoto. Pieni poteri». Un’altra antesignana storica è Yoko Ono, artista Fluxus, ma conosciuta anche per essere stata la moglie di John Lennon. Viene esposta l’opera Instruction Paintings dei primi Anni 60. Su alcuni foglietti dattiloscritti appesi al muro l’artista incoraggia il pubblico a creare un’opera d’arte con la propria immaginazione. Di una generazione più recente (1954) è Bruno Jakob. L’artista svizzero da tempo ha volto la sua ricerca sui diversi metodi di realizzazione di opere invisibili. Alla Biennale di Venezia dello scorso anno, nella mostra Illuminations, curata da Bice Curiger, aveva esposto i suoi Invisible paintings, fogli bianchi con nuances lasciate da interventi effettuati con acqua e sapone, di incredibile delicatezza. Propone anche qui una ricerca con la quale il visitatore è invitato ad interagire più che un’opera conclusa. Sul tema del vuoto e dell’invisibile come assenza e morte si cimentano in particolare James Lee Byars e Teresa Margolles. Cultore delle filosofie e delle religioni orientali, James Lee Byars appartiene alla storia della sperimentazione artistica. Le sue opere sono caratterizzate da una componente simbolica o esoterica. Ossessionato dalla morte, ha realizzato una serie di performance e installazioni che hanno come tema la sua dipartita come The Ghost of James Lee Byars . Il titolo del lavoro si rifà ad una mostra tenuta a Los Angeles nel 1969 e consiste in un tunnel buio attraverso il quale il visitatore deve camminare, passaggio simbolico verso una vita spirituale nell’aldilà. Più inquietante il lavoro di Teresa Margolles, messicana del 1963. Da tempo l’artista è impegnata con le sue opere nella denuncia della situazione sociale del suo Paese. Il pubblico deve attraversare una stanza avvolta da una sottile nebbia, creata da un umidificatore e ricavata dall’acqua usata per lavare le vittime di omicidi, prima dell’autopsia, in un obitorio a Mexico City, Due sono gli italiani presenti in mostra: Gianni Motti che presenta Magic Ink del 1989, una serie di disegni realizzati con inchiostro simpatico che compaiono solo per qualche istante e Maurizio Cattelan che espone Untitled (Denuncia) del 1991. L’opera consiste, come dice il titolo, nel foglio rilasciato dalla Questura di Milano nel quale si attesta che l’artista è stato vittima di un furto di una scultura invisibile avvenuto nella sua abitazione. Qui in effetti gli artisti sono due Maurizio Cattelan e il funzionario che ha accettato la denuncia.