Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 15 Venerdì calendario

MARIO SENSINI

ROMA — Potrebbe decollare già oggi dal Consiglio dei ministri la dismissione di una prima piccola porzione degli immobili e degli attivi dello Stato, un patrimonio che secondo il Tesoro vale tra i 4 e i 500 miliardi di euro. Il governo dovrebbe esaminare e approvare un decreto legge necessario per modificare le regole del federalismo demaniale e favorire, così, la creazione di un fondo immobiliare per la valorizzazione e la dismissione degli immobili devoluti dal Demanio alle Regioni e agli enti locali. Accanto a questo fondo, nei progetti più immediati del governo ce ne sono almeno altri due, uno per collocare sul mercato le aziende municipalizzate che i Comuni dovranno cedere entro la fine del prossimo anno, un altro ancora per dismettere immobili degli enti locali.
Sullo sfondo restano operazioni di razionalizzazione anche più ambiziose centrate sulla Cassa depositi e prestiti, destinata a diventare uno degli strumenti principali su cui il governo intende far leva per dismettere il patrimonio e ridurre il debito pubblico. Potenzialmente, immobili, partecipazioni, infrastrutture, risorse naturali e beni culturali pubblici avrebbero un valore di 1.800 miliardi di euro, dei quali 675 fruttiferi. Il patrimonio effettivamente disponibile, tuttavia, sarebbe pari a 400-500 miliardi, tanto quanto valgono, all’incirca, gli immobili dello Stato, ai quali si sommano 13 mila partecipazioni societarie. Solo quelle di rilievo nazionale hanno un valore stimato di 44 miliardi di euro.
Oggi stesso il governo dovrebbe avviare la discussione sui primi progetti concreti da realizzare: tenendo conto delle difficili condizioni del mercato, e i pochi acquirenti, in questa fase si punta a individuare gli strumenti e valorizzare i beni. Si parlerà probabilmente del conferimento di Sace e Fintecna, che valgono 9 miliardi di euro, alla Cassa Depositi , e si farà il punto sui fondi per le dismissioni degli enti locali. Quello per la valorizzazione dei beni del federalismo demaniale sarebbe intestato all’Agenzia del Demanio e dovrebbe avere una dotazione finanziaria variabile tra gli 800 milioni e il miliardo e mezzo. Un altro fondo servirebbe a Comuni, Regioni e Province per dismettere i beni immobili dei quali sono già oggi proprietari e che, altrimenti, sarebbe difficile monetizzare direttamente. Il terzo fondo in rampa di lancio, anche questo targato Cassa depositi e con un capitale di circa un miliardo, servirà invece ad acquistare dai Comuni le società che svolgono servizi pubblici locali e che, per legge, devono in gran parte essere cedute entro la fine dell’anno prossimo.
I sindaci, che hanno suggerito al governo la costituzione dei tre fondi, sono soddisfatti. «L’attivazione di questo processo sarebbe molto utile per le casse municipali» dice il presidente dell’Anci, Graziano Delrio. «Regioni, province e comuni hanno un patrimonio importante che troppo spesso non riescono a salvaguardare e preservare senza svendere», aggiunge il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, mentre la Cgil si dice preoccupata per il progetto di dismissione delle aziende pubbliche locali.
Lentamente, e soprattutto compatibilmente con i mercati, il processo di privatizzazioni ricomincia dunque a mettersi in moto. La dismissione dei beni pubblici, sottolineava proprio ieri il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, è del resto una delle poche leve a disposizione del governo per reperire risorse da destinare alla crescita. E l’operazione di dismissione del patrimonio degli enti locali, soffocati dal Patto di stabilità interno e a corto di soldi, secondo il Pd, è il passo giusto con il quale iniziare. «Se è quello che penso, ed è la proposta dell’Anci, è una cosa positiva. Va ben organizzata, non è una mole epocale» ha sottolineato il segretario Pier Luigi Bersani.
Mario Sensini

MASSIMO MUCCHETTI
O ggi il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare le prime misure per monetizzare una parte del patrimonio degli enti locali e dello Stato allo scopo di ridurre il debito pubblico. Era dall’inizio dell’anno che, come rivelò il Corriere, la Cassa depositi e prestiti e il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, coltivavano il progetto. Al quale si sono aggiunte diverse esercitazioni di banche italiane ed estere. Fra queste, Mediobanca la cui filiale londinese, dopo un sondaggio fra le consorelle della City, aveva rilevato come una manovra taglia debito costruita attorno alla Cassa avrebbe registrato diffusi consensi. Ci sono voluti sei mesi per muovere il primo passo, a causa di sotterranei contrasti dentro il governo e fra le diverse direzioni del ministero dell’Economia. Fosse partita tra gennaio e febbraio, l’Italia avrebbe agganciato quel piano alla luna di miele di Mario Monti con i mercati. Si è invece pensato che fosse preliminare la riforma del mercato del lavoro in tempi di recessione. Probabilmente è stato un errore nell’agenda politica. Ora lo spread, il differenziale tra Btp e Bund tedeschi a 10 anni, è tornato a danzare sul 4,5%. Ma è comunque bene partire. E dirsi la verità.
I tre fondi d’investimento, che dovrebbero venir varati dalla Cassa e dall’Agenzia del demanio per acquisire gli immobili degli enti locali e delle Regioni e le partecipazioni dei medesimi enti locali nelle imprese ex municipalizzate, vanno bene. Ma, diciamolo, costituiscono un’iniziativa piccola e complicata. Piccola perché gli immobili vendibili, senza promettere di pagare poi affitti esagerati, sono pochi a dispetto dei numeri fatti correre da chi guarda vecchi rapporti cartacei e non il mercato immobiliare attuale. E piccola anche perché il valore delle partecipazioni locali — il cosiddetto socialismo municipale — è molto contenuto a dispetto delle proiezioni di alcuni studiosi. Iniziativa complicata perché questi fondi dovranno fare i conti con i campanili. Un potere pervasivo e contraddittorio che rende ardue le riorganizzazioni industriali come quelle pure possibili su autostrade, ferrovie e tranvie, porti e aeroporti. Basti vedere le difficoltà del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, nel vendere peraltro a buon prezzo le azioni della Sea, la società degli aeroporti del capoluogo lombardo, e della Galleria Vittorio Emanuele.
Secondo le indiscrezioni, il governo dovrebbe avviare anche la cessione di Sace, Simest e Fintecna alla Cassa depositi e prestiti se questa accetterà il prezzo — si ipotizzano 10 miliardi — che verrà proposto dal ministero dell’Economia. L’operazione impegnerà meno risorse della Cassa di quanto appaia, perché dentro Sace e Fintecna c’è liquidità in eccesso. Logica vorrebbe che, in seguito, il governo mettesse in gioco le altre risorse pubbliche: da Poste all’Enel, dalle concessioni autostradali a parti del gruppo Fs. Mettere in gioco non equivale a vendere come negli anni Novanta. I mercati finanziari non lo chiedono più. E l’interesse nazionale vi si opporrebbe. A questi prezzi si regalerebbe patrimonio pubblico alla speculazione. Si possono usare la Cassa e i suoi strumenti ma avendo un’avvertenza e un’idea di futuro.
L’avvertenza è che la Cassa non è una mucca da mungere. Ha 3 miliardi di free capital, ottimo per i suoi conti, modestissimo per la bisogna dei conti pubblici. La Cassa usa il risparmio postale, risorsa dei cittadini. Non deve sgarrare dagli equilibri patrimoniali dettati dalla Banca d’Italia. Per potere vendere beni per i 50-100 miliardi di cui si è parlato, lo Stato ha l’obbligo di rafforzare il patrimonio della Cassa sia conferendole alcune delle sue partecipazioni sia riaprendone il capitale a investitori istituzionali italiani ed esteri, interessati ovviamente a quote minoritarie. Una Cassa più ricca potrà comprare dallo Stato e consentire poi ai governi futuri, usciti dalle urne, di decidere se vendere davvero ai privati o se continuare nello schema. Ma una Cassa più ricca senza oneri per lo Stato (si può fare) avrà anche l’opportunità di emettere nuove obbligazioni in ragione di 15-20 euro per ogni euro di capitale e raccogliere così a buon mercato — al minor costo possibile per un emittente italiano — ingenti risorse da riversare direttamente e attraverso le banche nel mondo dell’economia reale. E avrà infine il dovere di allargare, laddove sia possibile, le opportunità delle nuove partecipazioni — si pensi alla Sace — collegandole meglio al sistema delle imprese. La crescita non si fa con le prediche, ma trovando soldi e idee. Gli Usa stampano moneta. Dove sarebbe la loro ripresina senza gli aiuti pubblici? In attesa che la Bce possa copiare il meglio della Federal Reserve, l’Italia ha una strada davanti a sé. Che non è machiavellica, ma ricalcata su quella tedesca della KfW, l’omologa della Cassa che possiede partecipazioni strategiche e irrora l’economia tedesca di 2-300 miliardi di prestiti, finanziati al tasso dei Bund.
mmucchetti@rcs.it

ROBERTO BAGNOLI
ROMA — Fatturano 43 miliardi di euro, e in programma ne hanno altri 115 da investire, impiegano 186 mila dipendenti che salgono a 300 mila se il perimetro si allarga a tutte le partecipate. Tra presidenti, amministratori, consiglieri e direttori generali si arriva a un esercito di quasi 16 mila «manager» con una media di 4,3 per azienda. Le società in tutto sono quasi 4 mila ma nessuno sa con esattezza il numero vista la «scarsa completezza della informazioni fornite». Un terzo di queste sono comunque in perdita e sempre il 30% circa sono quelle che offrono davvero servizi pubblici per i cittadini.
Ecco la fotografia del capitalismo municipale che il governo di Mario Monti si accinge a smantellare, scattata dall’Irpa, l’Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione fondato nel 2004 da Sabino Cassese. Nel rapporto di 29 pagine realizzato dai ricercatori Sveva Del Gatto, Susanna Screpanti e Diego Agus sotto la guida di Giulio Napolitano, una analisi impietosa di un settore che continua a crescere e a moltiplicarsi nonostante i molti tentativi di riforma. Nel 2009, il peggiore anno dell’economia con un Pil in picchiata del 5%, il capitalismo municipale è andato controcorrente realizzando un aumento di fatturato dell’1,7%.
Nel rapporto si ricordano molti episodi di malcostume dove «la preponderanza delle logiche politiche supera di gran lunga quelle di mercato». Clamoroso il caso di Roma Capitale: il personale delle aziende che fanno capo al Campidoglio è cresciuto dal 2008 al 2010 di 3.500 unità. Alla fine del 2010 le tre principali aziende di Roma, cioè Atac, Ama e Acea avevano 2637 dipendenti in più rispetto a due anni prima «nonostante la crisi generale in aggiunta alle loro performance scadente e a ingenti situazioni debitorie».
Solo il 37,6% si occupa di servizi pubblici locali come la raccolta rifiuti la gestione dell’acqua, i trasporti, l’energia, il gas ect. Il restante 62,4% — si legge — si occupa di altre attività, edilizia, servizi alle imprese, oltre a società partecipate che svolgono compiti anomali «come la gestione da parte del Comune di Venezia del casinò, o quelle di un campeggio da parte del Comune di Jesolo. Il rapporto Irpa cita come fonti Nomisma, la Corte dei Conti, l’Istat, il Cnel, Unioncamere evidenziando forti disparità nella raccolta dati spiegabile con il fatto che quasi sempre si tratta di analisi a campione. L’assurdo quindi è che il governo si appresta a privatizzare o a razionalizzare un settore le cui dimensioni sono ancora in parte sconosciute. Una delle maggiori anomalie riscontrate è il ricorso indiscriminato degli affidamenti in house, cioè senza gara, di molti servizi. L’Antitrust ha cercato di intervenire appurando che il 32,9% delle pratiche da lei seguite ha emesso parere contrario. Nonostante molti interventi legislativi in questi ultimi anni «le dimensioni del fenomeno restano preoccupanti». «I dati sugli affidamenti diretti infatti indicano chiaramente come lo strumento societario sia stato utilizzato dagli enti locali principalmente per eludere i controlli pubblicistici e le norme di derivazione europea in materia di concorrenza».
In questo modo, ecco l’amara conclusione dello studio Irpa, i cittadini finiscono per pagare due volte un prezzo ingiusto: «Come contribuenti sopportano il costo di imprese inefficienti e in perdita, come consumatori sono costretti a rivolgersi a gestori individuati per la contiguità al potere politico invece che per la capacità di offrire prestazioni migliori». L’opera di disboscamento non sarà tuttavia facile, complicata dal referendum contro la «privatizzazione» dell’acqua che ha contribuito a ingarbugliare ancora di più il processo di semplificazione. L’Irpa consiglia di evitare la «privatizzazione formale e seguire quella sostanziale». Ma qui occorrono nuovi e più stringenti poteri di controllo.
Roberto Bagnoli