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 2012  giugno 14 Giovedì calendario

LA BELLA ELENA E GLI AMORI DA OPERETTA PER TURISTI IN FILA ALLA SPIAGGIA - T

anti anni fa, quando da bimbi s’andava al Ginnasio, erano abbastanza popolari i romanzetti che ironizzando modernizzavano le vicende e i personaggi di Omero. Accanto alle traduzioni dal greco antico, ritenute necessarie per formare la personalità e il carattere, attraverso il lavoro sui testi classici.
Già nell’Ottocento ci si era divertiti con le operette di Offenbach, tipo l’Orfeo all’Inferno o La bella Elena. E si rappresentano tutt’ora con successo per gli eroi ed eroine «in moderno» tra le folle di turisti in posa per le foto da spiaggia. Ma ancora alla metà del Novecento si leggevano con diletto i romanzini angloamericani come La vita privata di Elena di Troia o Il marito di Penelope, di John Erskine.
Addirittura Cesare Pavese, durante la scorsa guerra, tradusse per Bompiani Il cavallo di Troia di Christopher Morley. Ma con una preliminare «avvertenza». «Nulla di diverso da quanto faceva la pittura italiana dei grandi secoli vestendo alla quattrocentesca e alla cinquecentesca personaggi biblici o greco-romani. Siamo nella migliore tradizione dell’arte». E poi: «Della nostra fatica ci riterremmo compensati se questo Cavallo di Troia italiano invogliasse il lettore — specialmente quello tradizionalista — a rileggersi il Troilo e Cressida dello Shakespeare».
Il consiglio fu seguito da Luchino Visconti, a Boboli nel 1949.
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Al magnifico Attila romano, scatenati entusiasmi per la focosa e facinorosa direzione di Riccardo Muti, fitta e densa di minimalismi squisiti. E intensa immedesimazione drammaturgica per un leader barbaro vittima di incubi visionari come il suo coetaneo verdiano Macbeth. Oltre tutto, assassinato da una feroce vergine fra Quistello e Governolo, territorio mantovano di eccelsa gastronomia.
Sul programma, il Cardinal Ravasi evoca l’incontro fra il duro condottiero e il minaccioso vegliardo del sogno, Papa Leone Magno. E «la scena è ingombra di Unni, Eruli, Ostrogoti, ecc.». Mentre in Vaticano, da Raffaello in poi, abbondano gli affreschi illustri.
Tre anni dopo Attila, però, sbarca a Ostia il comandante Genserico, alla testa dei Vandali che si erano stabiliti in Spagna, nonché in Sicilia e Sardegna. E lì non funzionò. Leone Magno ripetè la performance, ma senza successo. Il Vandalo rinunziò all’incendio di Roma, e consentì invece il saccheggio: durò due settimane, e risparmiò soltanto le tre basiliche principali. Ci si domanda allora che fine abbia fatto il generale romano Ezio, che fra canti di Druidi e Sacerdotesse ed Eremiti aveva proposto un deal ad Attila: «Avrai tu l’universo, resti I’Italia a me». E le sue legioni romane, l’imperatore Valentiniano «coronato fanciul» secondo il libretto, e le feste, le cetre, le conche ospitali, le fatali tazze di cui abbonda l’Attila?
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Ottima piccola mostra stagionale dei Bruegel, a Villa Olmo sul lago di Como, parecchi piccoli e alcuni grandi formati, molto caratteristici e tipici. Carnevali e quaresime, balli di contadini in festa all’osteria, saccheggi e cuccagne, banchetti di folli e ubriachi, nozze, eremiti, proverbi e parabole con ciechi, storpi, scheletri, zoccoli, fantasmi...
Tanti anni fa, a Bruxelles, sotto il patronato dei Reali del Belgio, della Regina d’Inghilterra, e del Brabante, Europalia 80 allestì una grande esposizione, «Bruegel, una dinastia di pittori». Era al Palais des Beaux Arts, che fornì anche il titolo a una famosa poesia giovanile di W.H. Auden sulla «Caduta d’Icaro» appunto lì col «Paesaggio» di Pieter Bruegel il Vecchio dove nessuno avverte lo splash della caduta, nella quotidianità dove uno mangia, uno apre la finestra, uno cammina per strada...
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Data la scarsità delle opere di Vermeer, invece, sarà un problema la sua prossima esposizione alle Scuderie del Quirinale. Ricordo così alcune mostre all’Aia, al Mauritshuis, che è piccolo. A quella di Vermeer, appunto, la gente si ammassava nelle sue sale, mentre nessuno si affacciava a quelle attigue di Rembrandt, benché piene di opere celeberrime, «Susanna al bagno», «Presentazione al Tempio», «Lezione d’anatomia», autoritratti con o senza turbante... E davanti alla «Veduta di Delft» molti esclamavano rapiti petit pan de mur jaune, giacché andava di moda la celebre pagina della Recherche proustiana dove lo scrittore Bergotte ha un disturbo e praticamente decede ammirando la preziosa materia di quel muro giallino. Al contrario, per la mostra di Rembrandt si affollavano le sue sale; e invece praticamente nessuno passava in quella lì attigua di Vermeer. Così il muretto giallo passava inosservato.
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Sarebbe adesso interessante e divertente affiancare ai «veri» Vermeer quelli «fasulli» del falsario van Meegeren. Come del resto si è fatto nei Classici dell’Arte di Rizzoli. Qui si possono applicare i principii ottocenteschi di Giovanni Morelli, sui dettagli corporei nell’attribuzionismo dei dipinti, poi ribaditi e aggiornati da Federico Zeri, in base alle ciglia e alle unghie introiettate dai falsari inconsciamente, ma caratteristiche in base al cinema nei vari decenni del Novecento.
Così oggi ci si può clamorosamente sorprendere davanti ai falsi Vermeer di Meegeren, perché i più celebri — «Cena a Emmaus», «Ultima cena», «Adorazione dei Magi», eccetera, tutti sospettabilissimi anche perché troppo cattolici, benché acquistati da Goering — appartengono ai tardi anni Trenta del Novecento. E lo si constatò chiaramente negli anni Novanta, quando vennero esposti a Rotterdam e all’Aia; e non si capì come mai tanti esperti e musei e collezionisti olandesi ci fossero cascati. Accanto ai più cheap lavori dei coetanei di Vermeer, erano chiaramente e vistosamente anacronistici.
C’è però una curiosità, in tutto questo: anche nel Vermeer più autentico, soltanto le madame leggono o eseguono musica.
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Nella non grande mostra vaticana dei tesori pittorici delle Marche, sponsorizzata dalla Regione, par singolare una analogia con la Cenerentola televisiva. Infatti, su popolari musiche rossiniane, l’itinerario culmina con figurette da cartoon d’animazione che sfarfallano tra spiagge pubblicitarie e colline mozzafiato. Inoltre, riecco un’antica sorpresa; giacché fra le molte carte del Leopardi non si trovano mai pittori, negli indici dei nomi, benché esistessero mirabili dipinti di Lorenzo Lotto, a Recanati, e numerosi capolavori non lontani a Loreto, Jesi, Macerata, Ancona, Fano, Pesaro, Urbino, presenti in questa mostra. C’è qui anche un «cetriolo del Crivelli» che venne affibbiato da un titolista del «Giorno» a un articolo di Carlo Emilio Gadda sulle cucurbitacee ornamentali appese appunto da Carlo CrivelIi intorno alle sue Vergini. Somma stizza dell’Ingegnere.
Ecco però, «Quattro Santi in estasi» di Andrea Lilli, che guardano tre vistosi putti di sotto in su, da Ancona. Da Fano, una «Annunciazione» di Guido Reni, ove la Vergine sogguarda sospettosa l’Angelo. Da Ascoli, un suo «San Sebastiano» fin troppo bello. Ma di Raffaello, una preziosa tavoletta simile a una carta da tarocchi, con Santa Caterina da Alessandria. E di Tiziano, una importante «Resurrezione» commissionata da una delle più facoltose confraternite di Urbino.
Ancora, parecchie epoche di Francesco Podesti, che diede nome e opere alla Pinacoteca di Ancona: neoclassicismi, restaurazioni, una generazione dopo Leopardi, romantici vaticanismi con Pio IX, e per un marchese Carlo Bourbon del Monte. Molti culetti di angioletti, e nuvolaglie che paiono culoni di cavalloni. Di Lorenzo Lotto, una monumentale Madonna con puttini calvi e un piedone nudo con alluce un po’ valgo. Ma rimane a Recanati la sublime «Annunciazione», con lei rassegnata e il gatto arrabbiatissimo per l’intrusione del muscoloso Angelo con dietro un Dio tremendo, e un pergolato mediterraneo rustico lì fuori. Ma frattanto, Leopardi studiava Longino e Luciano e Lucilio, e non badava ai Lotto lì a Recanati.
Alberto Arbasino