Tommaso Labranca, Libero 13/6/2012, 13 giugno 2012
QUELLI CHE... NON POSSONO CAPIRE VASCO
Non si stava meglio quando si stava peggio. C’era un tempo in cui i quotidiani relegavano la cultura solo nella terza pagina e non in allegati più simili all’adolescenziale Cioè che al New Yorker e che bisogna pur riempire, magari recensendo il romanzo di Alba Parietti. In quei giorni, il sussiegoso curatore di cose culturali del Corriere della Sera si vide recapitare una lettera di Lucio Battisti, già da tempo chiuso nel più discreto dei silenzi. Il cantautore chiedeva la pubblicazione del suo scritto, ma solo in terza pagina. «Non so nemmeno chi sia questo signor Battisti », disse quel curatore prima di cestinare la lettera. Che oggi il Corriere avrebbe sparato in prima. A completare l’anamnesi giornalistica degli auto reclusi canterini, ecco Mina, a lungo editorialista per La Stampa. Proprio il quotidiano torinese sabato scorso ci ha ulteriormente dimostrato come l’accettazione del pop sia cambiata negli ultimi decenni e quelli che un tempo erano relegati alle copertine del Monello oggi sono materia di dotta discussione presso la casta professorale. Ecco quindi un’intera pagina dedicata a Vasco Rossi firmata da Massimiliano Panarari, che parte da un ennesimo libro dedicato allo sconvolto cantautore, Vasco, il Male di Alessandro Alfieri e Paolo Talanca (Mimesis, pp. 130, euro 12). La tesi del libro, al quale Vasco ha ribattuto punto per punto sulla sua pagina di Facebook («Ragionamenti che partono da premesse completamente sbagliate»; «Conclusioni assurde e senza senso»), lascia allibiti: Vasco è un cattivo maestro non tanto per il suo uso di stupefacenti, quanto per la carenza di cultura contenuta nei suoi messaggi, per la sua esaltazione dell’ignoranza, della trasandatezza e della volgarità. Panarari nel suo articolo si stupisce che queste accuse provengano da sinistra. E noi ci accodiamo al suo stupore, in quanto i difetti attribuiti a Vasco sono le basi filosofiche di ogni centro sociale. E poi sarà proprio la rozzezza di Vasco a salvarlo dal triste destino di un De Andrè o di una Björk, tutti veri cattivi maestri per liceali sfigati, zitelle iscritte al Club degli Editori, creativi pugliesi fuggiti a Londra e umanità varia con il culto della Cultura e dell’Intoccabile. Il limite maggiore del libro sta nell’anno di nascita del suo autore: Alessandro Alfieri è nato nel 1982. Chiunque può scrivere di Caravaggio o Baudelaire basandosi sulle opere e sulle fonti storiche. Per parlare di Vasco non basta mettersi ad ascoltare i dischi o andarsi a rivedere i clippini con cui ci ha deliziato l’estate scorsa. Vasco è ancora materia troppo viva perché possa parlarne chi non ha vissuto certe cose. Mentre Vasco esplodeva sul palco di Sanremo nel 1983 con Vita spericolata, Alfieri era alle prese con il biberon. E, peggio, quando Vasco nel 1982 in Vado al massimo temeva di diventare come «quel tale che scrive sul giornale», Alfieri forse non c’era ancora e non aveva letto l’artico - lo in cui Nantas Salvalaggio si scandalizzava per un «ebete piuttosto bruttino» che pareva lo spot dell’eroina e che la figlia seguiva a “Domenica In” mentre lui in poltrona leggeva Roth. Insomma, le dotte disquisizioni non sono sufficienti per attaccare Vasco. Bisogna aver vissuto il momento, bisogna aver preso il pullman che nel 1983 al sabato pomeriggio andava da Peschiera Borromeo a Milano. E lì, in mezzo a decine di skonvolti, rovinati dall’eroina, con i jeans a pelle, le finte Clarks, le collanine indiane, si poteva comprendere qual era la vera natura del fenomeno Vasco. Quale cattivo maestro che travia una generazione! Vasco è arrivato a cose già fatte, si è trovato davanti una genia di tossici incalliti, nemici di ogni cultura, sporchi, maleducati. Tutta gente che provava ad ascoltare Jim Morrison o Bob Marley, ma non li capiva perché «cantavano in straniero». Quando venne Vasco che puzzava e parlava come loro, lo elessero a guida. Per sapere queste cose, e quindi per capire cosa è stato Vasco, bisogna averle vissute, magari stando dalla parte della fredda new wave, con l’abitudine di lavarsi e il disprezzo per le camicie all’indiana. Le speculazioni non bastano. Ecco perché il rasoio di Occam con cui Panarari descrive il metodo critico degli autori qui non funziona. Qui serve un Bic Usa, Riusa, Riusa Ancora e Getta. Perché gli skonvolti cercavano di spendere il meno possibile e si facevano registrare i dischi su cassette di bassa qualità. I soldi servivano tutti per la roba. Molti di loro riposano nei cimiteri dei paesini attraversati da quei pullman, li riconosci dalle due date troppo vicine incise sulle lapidi. Vasco è ancora qui e questa è un’altra colpa per gli autori del libro perché negli ultimi anni, dicono, non ha fatto che ripetersi. Sarà anche vero. Ma Vasco ci ha messo 30 anni per perdere ispirazione. A Tiziano Ferro sono bastati due album. Ha forse ragione Morgan quando ritiene Vasco defunto da tempo. Forse dal momento in cui alla droga sporca dei tossici rantolanti per terra è subentrata quella pulita delle pastigliette. Quando il rallentamento biascicato e reiterato dell’eroina è stato moltiplicato nella velocità supersonica dell’ecstasy; quando le periferie disagiate delle nostre città hanno iniziato a copiare l’emarginazione fighetta alla Trainspotting. Allora, a partire dagli anni ’90, Vasco è diventato inutile. Panarari gli rimprovera di non aver più composto cori da trasformare in inni. Ma chi potrebbe cantarli? Vasco sa bene che dal Siamo solo noi si è passati al Sono solo io. Sono solo io, uomo acciaccato, che digito deliri al pc, ricompongo le stesse canzoni e rifuggo dalle charities pro-terremotati. Ma uomo ancora vivo e non farfalla spillata da studiare. Tanto meno da chi non ha mai preso quei pullman al sabato pomeriggio.