Riccardo Redaelli, Avvenire 14/06/2012, 14 giugno 2012
SOFT POWER CINESE, LA GRANDE CONQUISTA
Difficile trovare un nome più poetico: String of Pearls, il Filo di Perle. Tuttavia, è bene non farsi trarre in inganno: in questo caso non parliamo del più classico fra gli ornamenti femminili: il Filo di Perle è la manifestazione del crescente ruolo geopolitico della Cina nell’Oceano Indiano. Dietro questa rassicurante definizione vi è infatti una sofisticata strategia militare, politica, diplomatica, economica e culturale che Pechino ha elaborato da anni per rafforzare le proprie vulnerabili linee di comunicazione marittime verso l’Africa e il Medio Oriente. La gran parte delle merci cinesi viene esportata lungo queste rotte, solcate da una quantità crescente di importazioni d’energia, materie prime e alimenti necessari a sostenere la straordinaria crescita del gigante asiatico.
A partire dagli anni ’90, il governo cinese ha avviato una politica per rafforzare la propria sicurezza marittima. Come prassi di Pechino, ogni accenno alla forza militare e a una politica muscolare è tassativamente bandito: la ’liturgia ufficiale’ del Partito comunista parla di heping juegi, «sviluppo pacifico» e di «oceano armonioso»: la maggior presenza cinese nell’Oceano Indiano non deve suonare minacciosa per nessuno e tutti ne devono beneficiare. Almeno in teoria, dato che la realtà della politica internazionale è molto meno armonica rispetto alle flautate definizioni che i cinesi amano dare alla ben più cruda realtà.
Il Soft Power in salsa cinese
Vent’anni fa, subito dopo la fine della guerra fredda, la Cina era molto meno ricca e potente di oggi e gli Stati Uniti molto più forti: l’unica super-potenza in un mondo che si pensava unipolare. Per contrastarne la potenza, Pechino scartò la contrapposizione militare, puntando a una politica di lungo periodo che doveva promuovere progressivamente un mondo multipolare. Una nuova generazione di politici e analisti diffuse in Cina il concetto occidentale di Soft Power (potere morbido), ossia della capacità di un Paese di influenzarne altri senza ricorrere alla forza militare o alle pressioni politicoeconomiche.
Nel 1993 il politologo cinese Wang Huning pubblicò il primo articolo sul Soft Power cinese in cui sosteneva che «se un Paese possiede una cultura e un sistema di valori ammirevoli, allora le altre nazioni cercheranno di seguirlo. Pertanto non è necessario che faccia uso della sua forza militare, che è costosa e talvolta meno efficace». Una simile idea ben si sposa con la cultura confuciana, che esalta la superiorità della forza morale su quella fisica e si è tradotta in una strategia geopolitica di grande efficacia.
Pechino ha cominciato a diffondere la propria cultura e la propria lingua, investendo somme rilevanti negli Istituti Confucio, che riprendono il modello dei British Council o dell’Alliance Française: studenti da tutto il mondo nelle proprie università. Anche le numerose comunità della diaspora cinese – per lungo tempo mal viste nella Cina comunista – sono divenute un elemento strategico del Soft Power . Ma l’obiettivo di fondo era in ogni caso garantire la straordinaria crescita economica del Paese e aumentarne il potere internazionale.
La fame cinese
L’idea di una strategia militarmente non aggressiva ma geo-economicamente molto spregiudicata deriva dalla necessità di soddisfare la propria domanda interna sempre crescente di materie prime. La Cina è il secondo consumatore al mondo di petrolio e il terzo Paese importatore; necessita inoltre di enormi quantità di metalli, legno, prodotti agricoli oltre che delle preziose ’terre rare’ (ossia quei minerali estremamente scarsi ma necessari per le nanotecnologie e la componentistica informatica). Il sistema economico nazionale ha un forte bisogno di accedere a tali risorse e questa tendenza non fa che aumentare. Da qui l’importanza di assicurarsi relazioni amichevoli con gli Stati fornitori e con quelli che si affacciano lungo le estese vie di comunicazione marittima.
Per questo motivo, alla fine degli anni ’90 è stata adottata una nuova strategia, denominata Go Out Strategy, basata sostanzialmente sulla necessità di instaurare rapporti di cooperazione e scambio con Paesi ricchi di risorse di cui invece Pechino scarseggia, attraverso una serie di accordi tra le società multinazionali cinesi ed estere e intese politiche con i regimi di quei Paesi, difesi nel consesso internazionale anche in caso di manifeste violazioni dei diritti umani (come nel caso di Birmania, Sudan, Iran). E l’Africa è stato il continente privilegiato di questa politica.
La conquista dell’Africa
In primo luogo perché il Continente nero è considerato ancora oggi ’periferia’ del mondo, lontano dai riflettori, fatto che concede un’ampia libertà di azione nel perseguire i propri interessi. Poi perché Pechino può presentarsi amichevolmente, come una nazione attenta alle esigenze dei Paesi del Sud del mondo, sottolineando la propria differenza rispetto alle potenze coloniali o neo-coloniali occidentali. Uno Stato di cui fidarsi, insomma.
Si è creata così una formidabile rete di interessi politici ed economici, con la Cina che sostiene molti dei regimi africani e ne è sostenuta in sede dell’Assemblea generale dell’Onu. Le società nazionali hanno stretto una miriade di accordi e joint-ventures che assicurano il controllo di enormi quantità di idrocarburi, metalli di ogni genere, terre rare, prodotti agricoli.
Sono spesso cinesi le imprese che in Africa costruiscono strade, porti, infrastrutture, mettendo fuori gioco le aziende occidentali per via dei bassi prezzi della mano d’opera (e il ricorso – talora – al lavoro coatto di carcerati). Agli investimenti diretti per decine di miliardi di dollari si sommano programmi di aiuti e sussidi, prestiti, forniture di medicinali (scadenti) e di tecnologie. Oltre alla corruzione delle élite locali economiche e politiche e alla già ricordata protezione politica internazionale. In dieci anni, dal 2000 al 2010, il volume degli affari è decuplicato, da 10 a 100 miliardi di dollari.
La partita sul mare
Ma essere divenuta la potenza economica di riferimento principale in Africa non è bastato a Pechino: il punto debole di questa strategia era la debolezza di Pechino nel controllare le lunghe rotte commerciali marittime. Ecco allora la necessità del Filo di Perle: una serie di accordi politici, economici, investimenti e sussidi, borse di studio e legami culturali lungo un’invisibile linea che collega il Mar Cinese Meridionale all’Oceano Indiano e al Mar Rosso. Sono le bandiere del Dragone che garriscono a Port Sudan in Africa, a Gwadar in Pakistan, nel Golfo del Bengala, a Bassein e Akyab in Myanmar, nei porti thailandesi e dell’Indocina.
Un attivismo che sembra riprendere gli insegnamenti geopolitici del Sea Power , il «potere marittimo» che da sempre caratterizza le nazioni anglosassoni. E che non a caso preoccupa Washington, oltre alle altre potenze regionali, tutte spaventate da questa avanzata silente e ovattata. Il timore è che un giorno, quando sarà pronta, la Cina lungo l’Oceano Armonioso mostri anche l’acciaio delle proprie armi.