Richard Newbury, La Stampa 14/6/2012, 14 giugno 2012
Quelli di noi che si sono bruciati il cervello vivendo in pieno l’esperienza psichedelica degli Anni Sessanta sostengono che «se riesci a ricordarti gli Anni 60 non li hai davvero vissuti»
Quelli di noi che si sono bruciati il cervello vivendo in pieno l’esperienza psichedelica degli Anni Sessanta sostengono che «se riesci a ricordarti gli Anni 60 non li hai davvero vissuti». Certo, i ricordi sono un po’ confusi, ma io ho diversi flashback, come quelli della canzone «Jumping Jack Flash» dei Rolling Stones. Come scrisse il poeta Wordsworth dei primi giorni della Rivoluzione francese: «Vivere quell’alba era una benedizione, ma essere giovani era il paradiso». Quel ventenne che si pavoneggiava in uno scatto per l’edizione inglese di «Vogue», fotografato dalla compagna di studi a Cambridge Suzy Menkes, destinata a diventare celebre firma di «Vogue», ero proprio io? Sono io colui che disse no all’offerta di un contratto da parte dell’etichetta discografica Track Records? Michelangelo Antonioni venne nel 1966 a vedere la Swinging London scoperta su «Time» per realizzare «BlowUp» (il titolo significa «far saltare in aria», ma anche «ingrandire»), in cerca di una rivoluzione. Vi trovò una straordinaria esplosione di cultura giovanile nella musica, nella moda, nel cinema, nel pop e nella popart e persino nel cibo che distrusse lo stereotipo, un tempo giustificato, di una città degradata e dilapidata, di vestiti grigi, cibo pessimo, arte e architettura tradizionali, uomini in bombetta e donne in abiti informi che governava un enorme Impero. E le radici di questo fungo psichedelico degli Anni 60 erano nate dall’humus della morte e della distruzione della guerra, ma anche dai cambiamenti nell’organizzazione sociale che la guerra aveva imposto. Quindi, già nei giorni bui del 1942 un mondo nuovo era emerso grazie al Rapporto Beveridge, iniziativa legislativa che voleva sconfiggere i giganti cattivi del Bisogno con la previdenza sociale «dalla culla alla tomba», la Malattia con cure mediche gratuite, lo Squallore con la ricostruzione dei sobborghi fatiscenti e bombardati, l’Ignoranza con la legge sull’istruzione del 1944 che rendeva gratuita l’educazione a livello universitario e che dava agli studenti un salario e un alloggio e infine l’Ozio, combattuto con la piena occupazione e i sussidi. Gli effetti della mobilità sociale necessaria in tempi di guerra, che avveniva rigorosamente per merito, e della tassazione punitiva che ne seguì, diedero origine a una rivoluzione. La mobilitazione attraverso la coscrizione maschile e femminile portò la popolazione al 9% nell’esercito e al 25% nelle industrie di guerra con una conseguente rottura delle distinzioni sociali, e questo fomentò, in modo più o meno discreto, una protorivoluzione sessuale che sarebbe stata ereditata dagli Anni 60. I razionamenti di cibo, carburante e abiti del dopoguerra – finiti solo nel 1954 - crearono negli studenti l’abitudine di comprare i cappotti nei negozi che vendevano abiti militari in eccedenza. Il mio preferito a Londra, Fitzrovia, finito troppo presto su «Vogue», cominciò improvvisamente a vendere uniformi rosse da cerimonia: così nacque la moda del momento, perfetta per un periodo di veloce decolonizzazione. Gli Anni Sessanta hanno visto un enorme aumento di università nuove di zecca, e poiché gli studenti erano selezionati in modo competitivo, molti se ne andavano di casa a 18 anni per studiare (e fornire così il pubblico ai nuovi gruppi rock). Anche gli studenti delle numerose scuole d’arte locali erano sostenuti finanziariamente dai contributi pubblici. Oltre a creare i progettisti e gli artisti degli Anni 60, furono queste le fucine dei gruppi di «rhythm and blues». John Lennon arrivava dalla scuola d’arte di Liverpool, e dalle scuole d’arte delle periferie londinesi uscirono i Rolling Stones (Sidcup e Beckenham), The Pretty Things (Catford), Pete Townshend degli Who (Ealing), Syd Barrett dei Pink Floyd (Camberwell), oltre a Ray Davies di The Kinks, Eric Clapton e Jimmy Page. Dal 1963 circa cominciarono a suonare nei pub la musica blues del Sud degli Stati Uniti degli allora quasi archeologici Chuck Berry e Muddy Waters, e nel 1966 questa musica «segregata» si diffuse viralmente in tutto il mondo. Valentina Agostinis ha avuto la brillante idea di scrivere un saggio ben documentato sulla Swinging London del 1966, «Swinging city» (Feltrinelli, pp. 234, euro 18), seguendo le orme del simile viaggio di scoperta fatto da Michelangelo Antonioni nel suo film-icona, «Blow Up». Il regista trova poca politica ma molti mutamenti sociali con il suo ª, fotografo di estrazione proletaria che guida una Rolls Royce e usa il radiotelefono (personaggio modellato su David Bailey e Terry Donovan) che fa la ruota come un pavone, un «re del pollaio» che fa volare le piume delle aristocratiche modelle androgine mentre il suo obiettivo le ingrandisce fino a farle diventare illusioni ottiche come se fossero dipinti di Bridget Riley. L’ebbrezza del dopoguerra sta per diventare un incubo, ma nel 1966 tutto questo deve ancora accadere. E, come cantava Chuck Berry, era ancora possibile spassarsela sulla Strada 66 («Get your kicks on Route 66»).