Franco Bruni, La Stampa 14/6/2012, 14 giugno 2012
C’ è
chi ha il terrore di morire anche se vive senza convinzione e contentezza. C’è chi teme la fine dell’euro anche se lo sopporta male. Non manca chi ricorda l’enorme costo di spezzare l’unione monetaria. È più raro sentir parlare del costo di «fare a meno dell’euro» nel più lungo andare, passato il trauma della sua rottura. Si ha l’impressione che non siano pochi coloro che temono i disastri immediati di una disintegrazione dell’euro, soprattutto nel bel mezzo di una crisi economica mondiale, ma considerano la moneta unica più un problema che una soluzione, non sono convinti del vantaggio netto che i Paesi europei traggono dalla sua esistenza. Per avere la forza di fare quello che occorre alla salute dell’euro dobbiamo invece convincerci che senza la moneta comune l’Europa sarebbe più povera e tribolata.
Cominciamo a dire che se finisse l’unione monetaria finirebbe l’Ue, almeno nella forma e con le prospettive che ha oggi. Non a caso i Trattati ammettono l’uscita dall’euro solo insieme all’abbandono dell’Ue. Senza la moneta comune il pilastro del mercato unico perderebbe senso e con esso quello sforzo per coordinare e accentrare alcune fondamentali decisioni politiche che costituiscono l’essenza dell’Unione.
Anche mantenendo qualche forma debole di cooperazione, un’Europa senza euro non potrebbe che essere un’area dove i Paesi maggiori, Francia, Germania, Italia, Spagna, vivrebbero avventure economiche e politiche sostanzialmente autonome e potenzialmente ostili. Non vale l’esempio del Regno Unito, che da sempre è nell’Ue e non nell’euro: si tratta di un caso speciale, per diverse ragioni, che forse verranno meno col tempo, costringendo Londra ad aderire all’euro o a uscire dall’Ue.
Perciò il costo della mancanza dell’euro finirebbe a diventare quello che, prima che l’euro nascesse, si chiamava il «costo della non Europa»: ci convincemmo che sarebbe stato un costo elevatissimo e ne traemmo stimolo per fare molta più Europa. La stragrande maggioranza dei popoli e dei politici europei deve riaffermare questa convinzione: è condizione essenziale perché non si torni indietro, più o meno precipitosamente.
Ma proviamo a rimanere alle questioni monetarie e finanziarie. Senza euro ci sono due scenari: nel primo i Paesi con monete diverse rimangono aperti e integrati l’uno con l’altro, commercialmente e finanziariamente; nel secondo ciascuno aggiunge al ritorno della moneta nazionale dosi più o meno massicce di protezionismo, chiusura, disintegrazione dagli altri.
È facile comprendere come, nel primo scenario, le differenze fra le politiche monetarie e di bilancio dei Paesi crescerebbero, i tassi di inflazione e di interesse divergerebbero, i capitali si muoverebbero speculando sulle differenze di rendimento e sulle aspettative di svalutazioni e rivalutazioni dei cambi che inevitabilmente seguirebbero, continuamente, con un perenne disordine monetario. Le condizioni di finanziamento dei settori pubblici e delle imprese private di ogni Paese sarebbero instabili. Non ci sarebbe prevedibilità macroeconomica, il rischio di cambio ostacolerebbe i commerci e gli investimenti internazionali; ne soffrirebbero la crescita e l’occupazione, travolgendo qualunque vantaggio derivante agli esportatori da svalutazioni competitive che avrebbero vita breve, subito neutralizzate dai differenziali di inflazione. E, quel che è peggio, diverrebbe forte l’attrattiva del secondo scenario: come negli Anni 70, per proteggerci dal disordine internazionale verrebbe chiesta l’introduzione di vincoli alla libera circolazione internazionale dei risparmi e dei capitali; per compensare la variabilità dei cambi si cercherebbe di ostacolare la libertà del commercio internazionale. Risuscitate le monete nazionali, magari con l’aspettativa di accrescere l’autonomia delle politiche di ciascun Paese, si scoprirebbe che l’autonomia data dal cambio fluttuante è illusoria, soprattutto quando c’è mobilità dei capitali fra i Paesi, a meno di non interpretare l’autonomia come nazionalismo protezionista.
Sarebbe allora il secondo scenario, con costi ancor più alti, economici e civili. Senza libertà di investire e prendere a prestito all’estero, i risparmi e gli investimenti dei cittadini sarebbero prigionieri delle sole opportunità nazionali e vittime dell’arbitrio con cui i politici li governerebbero. Crediti e prestiti sarebbero assoggettati a provvedimenti dirigistici. I grandi debitori, cioè i governi e le imprese loro amiche, potrebbero remunerare poco i risparmi, impiegarli a favore di interessi particolari e svalutarli con l’inflazione. Minimizzati i vincoli e riferimenti europei, in ogni Paese i prepotenti avrebbero più facilmente la meglio. Nei rapporti internazionali, diradati dal protezionismo, non ci sarebbe ragione per competere facendo funzionare meglio la propria economia: anche fra Paese e Paese sarebbe la prepotenza a dominare. Prepotenza ben più grave e perniciosa dell’«egoismo» che alcuni attribuiscono oggi alla leadership tedesca.
Più del disastro finanziario del giorno dopo, la rottura dell’euro comporterebbe dunque il rischio di pagare i «costi della non Europa», cioè di un’Europa segmentata, disordinata, litigiosa, debole e con molte meno ambizioni e possibilità di incivilimento. È vero che dopo tanti anni di euro i nazionalismi sono tutt’altro che finiti. Ma è inutile insistere che prima avremmo dovuto unire l’Europa e poi metterle l’euro come una corona sul capo; abbiamo tentato coraggiosamente di strumentalizzare l’euro anche per unire l’Europa e farla migliore: conviene continuare lo sforzo.