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 2012  giugno 14 Giovedì calendario

L’ultimo nome finito sul registro degli indagati è quello del novantenne Giovanni Conso, ex ministro della Giustizia, sospettato di aver mentito ai pubblici ministeri

L’ultimo nome finito sul registro degli indagati è quello del novantenne Giovanni Conso, ex ministro della Giustizia, sospettato di aver mentito ai pubblici ministeri. E come lui l’ex capo dell’amministrazione carceraria Adalberto Capriotti, 89 anni tra due settimane, e l’europarlamentare udc, ex Dc ex Forza Italia, Giuseppe Gargani. Ma le novità dell’indagine sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, nel biennio 1992-1994, non si fermano qui. Fra coloro che, «con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso» contribuirono a rafforzare la minaccia mafiosa alle istituzioni, la Procura di Palermo ha inserito anche l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi e il vicedirettore generale delle carceri, Francesco Di Maggio, entrambi morti da tempo. Con essi, gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, che contattarono l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci, insieme al generale in pensione Antonio Subranni. E altri nomi ancora, più o meno famosi, della politica di Cosa Nostra. Indagine chiusa Sono le conclusioni dei pubblici ministeri Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene (il quinto titolare dell’inchiesta, Paolo Guido, non ha firmato l’atto finale perché in disaccordo su alcuni punti) dopo quattro anni di indagini. Secondo il capo d’imputazione, «a partire dal 1992» i boss ricattarono le istituzioni per ottenere «benefici di varia natura» su leggi, procedimenti giudiziari e trattamento dei detenuti. Con la minaccia di proseguire la strategia di morte avviata a marzo di quell’anno con l’omicidio dell’esponente democristiano Salvo Lima, ottennero contatti con «pubblici ufficiali ed esponenti politici di primo piano» disposti a concessioni pur di far cessare gli attentati. La trattativa, appunto. Ecco allora i tre carabinieri, che attraverso Ciancimino avrebbero tentato la mediazione prima con Totò Riina e poi con Bernardo Provenzano, «agevolando l’instaurazione di un canale di comunicazione finalizzato a sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra». Ne venne fuori una serie di «reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista, e dall’altra all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato». Fino a garantire «il protrarsi della latitanza di Provenzano, principale referente mafioso di tale trattativa». Per un episodio del 1995 in cui, secondo l’accusa, avrebbe potuto catturare il padrino corleonese ma non lo fece, Mori è già sotto processo insieme al colonnello dei carabinieri Mauro Obinu. Ed ecco l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, vittima predestinata della campagna avviata con l’uccisione di Lima, il quale proprio per avviare quella sorta di contrattazione con la mafia avvicinò «esponenti degli apparati info-investigativi» per acquisire informazioni sui boss. Dopodiché, consumate le stragi del ’93, avrebbe esercitato «indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario», cioè il carcere duro. Tutto questo si sarebbe concretizzato, con l’avallo del prefetto Parisi e del vicedirettore generale Di Maggio, nella mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di «carcere duro» ad altrettanti detenuti legati alla criminalità organizzata siciliana e non solo, decisa dall’ex ministro Conso nell’autunno del 1993. I «41 bis» revocati Sulle circostanze di quella decisione, che ha sempre affermato di aver preso «in solitudine», Conso è ora accusato di non aver detto la verità ai pubblici ministeri, e per questo si ritrova indagato. Al pari di Capriotti, che a giugno del ’93, appena arrivato al vertice dell’amministrazione penitenziaria insieme al suo vice Di Maggio, propose in un appunto indirizzato al ministro di non rinnovare il «41 bis» a 373 detenuti per dare «un segnale positivo di distensione»; chiamato più volte a testimoniare, non ha saputo dare spiegazioni plausibili sulla genesi di quel documento. Il terzo indagato per false dichiarazioni ai pubblici ministeri (per i quali il procedimento si sospenderà in attesa dell’esito di quello principale) è Giuseppe Gargani, che secondo la testimonianza di una giornalista avrebbe ricevuto da Mannino confidenze e raccomandazioni sulla necessità di fornire agli inquirenti una versione unitaria proprio sulla trattativa; Gargani ha negato la circostanza, ma i pm credono alla testimone e ritengono che l’europarlamentare abbia mentito. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino invece, avendo deposto davanti al tribunale (sempre mentendo, secondo i pm, a proposito dei contatti tra Ciancimino e i carabinieri, nonché sulle motivazioni che lo portarono al Viminale nel ’92, in sostituzione di Scotti), avrebbe commesso il reato di falsa testimonianza, e la sua posizione sarà definita insieme a quella dei presunti protagonisti della trattativa. Dell’Utri e Berlusconi Nella ricostruzione della Procura, i contatti tra i boss e gli esponenti della politica non fermarono nell’autunno del ’93, ma proseguirono anche nel 1994, dopo le elezioni vinte da Forza Italia. Per questo motivo due «uomini d’onore» del calibro di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca sono accusati di aver «prospettato al capo del governo in carica Berlusconi Silvio, per il tramite di Mangano Vittorio (il mafioso assunto come «stalliere» dall’ex premier nella sua villa di Arcore, ndr) e di Dell’Utri Marcello, una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura». Sempre con l’incombente ricatto di nuovi omicidi o attentati. In questo quadro, Dell’Utri si sarebbe «inizialmente proposto e attivato», in sostituzione di Lima, «come interlocutore degli esponenti di vertice di Cosa Nostra»; in seguito, dopo gli arresti di Ciancimino e Riina, «rinnovò tale interlocuzione agevolando il progredire della trattativa» nonché la «minaccia» mafiosa, favorendone «la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come capo del governo». L’indagine giunta a conclusione, per la quale i pm si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio degli indagati, s’è basata inizialmente sulle fluviali e variegate deposizioni di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco che sostiene di aver fatto da tramite tra suo padre e Provenzano. Per questo è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma su di lui pesa anche un’altra ipotesi di reato: la calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia e dei servizi segreti, ora sottosegretario del governo Monti, Gianni De Gennaro, che Ciancimino jr «incolpava, sapendolo innocente, di aver intrattenuto costanti e numerosi rapporti illeciti con esponenti di Cosa Nostra». Giovanni Bianconi