Federico Fubini, Corriere dell Sera 14/6/2012, 14 giugno 2012
La grande ritirata ha avuto inizio circa quattro anni fa, ogni tanto accelera e solo di rado rallenta
La grande ritirata ha avuto inizio circa quattro anni fa, ogni tanto accelera e solo di rado rallenta. Ma non si ferma mai. Non accenna in nessun momento, almeno per ora, a invertire il senso di marcia. È la ritirata del denaro: silenziosa e poco visibile per i cittadini, è la grande forza che sta mettendo alla prova centinaia di milioni di lavoratori e imprese nel continente. Gli addetti ai lavori lo chiamano «sudden stop», arresto improvviso. Si trattasse di un corpo umano, sarebbe un infarto che impedisce al sangue di raggiungere le membra e alcuni degli organi vitali. Con l’euro questo fenomeno prende la forma di una fuga degli investitori esteri da qualunque parte dell’area e non solo dalla cosiddetta «periferia» composta da Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia. In realtà un po’ ovunque banche e imprese stanno rimpatriando i fondi e i conti bancari dagli altri Paesi d’Europa verso il proprio Paese d’origine: il fenomeno della rinazionalizzazione dei capitali colpisce la Germania quanto l’Italia, la Francia come la Spagna; se Spagna e Italia ne soffrono più di Germania o Francia, è semplicemente perché le economie dell’Europa del Sud hanno molto più bisogno di capitali esteri per finanziare i propri debiti e così continuare a funzionare. È come se l’invisibile ragnatela del denaro che tiene unita l’area monetaria, l’infrastruttura dell’euro, si stesse sfaldando e ritraendo mese dopo mese. Chi ha bisogno del denaro altrui per vivere, perché ha troppi debiti, avverte questo fenomeno come una carenza di liquidità che rallenta i pagamenti, soffoca le imprese, distrugge i posti di lavoro. Ma più questa infrastruttura dell’euro si ritrae, più si estende un secondo processo patologico: in certi Paesi deboli dell’area, i risparmiatori temono che le banche o lo Stato non reggano il colpo, non si fidano più e decidono di mettere in sicurezza i propri soldi. Decidono di portarli altrove. Nasce così l’altro fenomeno, parallelo al grande rimpatrio dei fondi: in Grecia o in Spagna, a Cipro o in Irlanda i cittadini e le imprese chiudono i loro conti in banca e portano i soldi in Germania, in Lussemburgo, in Olanda o anche in Francia. In Italia i deflussi di depositi di qualche mese fa si sono fermati, poi c’è stato un netto recupero da febbraio a aprile, anche se ora si aspettano dati affidabili su maggio e giugno. Le due correnti, rimpatrio dei fondi e fuga dei capitali, viaggiano allo stesso tempo e sono alimentati da un timore comune: che l’euro un giorno potrebbe non esserci più; ma sono proprio queste due correnti che ne mettono in pericolo la sopravvivenza, ed è l’incertezza che ne deriva a sua volta alimenta i flussi perversi di capitale. La spirale si può spezzare, occorre un accordo al massimo livello politico come lo fu Maastricht nel ’91. Ma i dati della Banca centrale europea e quelli della Banca dei regolamenti internazionali mostrano che l’avvitamento è in corso ed è partito quando in Occidente l’accumulo di debito è arrivato a livelli insopportabili. Tutto è iniziato nella prima metà del 2008, alla vigilia del collasso di Bear Stearns e Lehman Brothers negli Stati Uniti. Dal marzo al giugno di quell’anno ha raggiunto il record di sempre l’esposizione delle banche francesi e tedesche sull’Italia (rispettivamente 531 e 269 miliardi di dollari), ma anche di quelle tedesche sulla Spagna (211 miliardi) o di quelle italiane su Francia e Germania (rispettivamente 88 e 427 miliardi di dollari). Da allora la crisi e poi i timori per il futuro dell’euro hanno suonato la grande ritirata per tutti. Alla fine del 2011 le banche francesi avevano ridotto i loro investimenti sull’Italia del 37%, cioè di duecento miliardi di dollari (84 miliardi solo negli ultimi sei mesi del 2011). Nel frattempo le banche tedesche hanno tagliato la loro esposizione sull’Italia del 50% e sulla Spagna del 53%. Solo da Germania e Francia su Italia e Spagna, si è consumato un rimpatrio di capitali sulla scala colossale di 600 miliardi di dollari in tre anni. Gli spread sui titoli di Stato sono esplosi così. Di certo francesi e tedeschi erano preoccupati per la tenuta del debito dell’Italia o della Spagna, ma non è il solo motivo. A ben vedere, le banche italiane si sono comportate esattamente allo stesso modo: dal 2008 al 2011 hanno tagliato i loro investimenti in Germania del 46% (cioè di ben 200 miliardi di dollari) e in Francia del 54%. Ognuno è tornato con i propri soldi in casa propria, come se non si fidasse più di restare altrove nell’area-euro. Perché? Due ragioni: le autorità nazionali di controllo, dalla Bafin tedesca alla Banca d’Italia, hanno spinto in questo senso; ma soprattutto le banche (e le imprese) hanno deciso che forse in un giorno molto vicino l’euro non esisterà più, quindi è più sicuro tenere le proprie attività e le proprie passività tutte dentro la stessa giurisdizione nazionale, in modo da evitare rischi futuri con un tasso di cambio fluttuante fra l’Italia e la Germania, o la Spagna e la Francia: meglio non avere debiti in una moneta che si rivaluta e introiti in una moneta debole. È questo comportamento che sta sfaldando l’infrastruttura dell’unione monetaria, in un panico che si autoalimenta. Il risultato è che l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda o la Grecia hanno perso gli investitori privati esteri nel loro debito e faticano a finanziarsi. La tabella al centro, elaborata da Jean Pisani-Ferry e Silvia Merler del centro-studi Bruegel, mostra che i fondi privati dall’estero verso l’Italia sono crollati nell’ultimo anno di 200 miliardi: circa il 14% del Pil. Fuori dall’Italia, non ci sono più compratori privati di Bot o Btp. Li ha dovuti sostituire la Bce, comprando direttamente titoli di Stato oppure prestando alle banche italiane perché lo facessero. Il risultato è che nel sistema dei pagamenti interno alle banche centrali europee federate nella Bce, chiamato «Target 2», l’Italia o la Spagna sono sempre più in debito e la Germania sempre più in credito (tabella sopra). E i conti in banca delle famiglie e delle imprese? Lì la grande fuga ha preso una forma diversa. Dalla Grecia sono defluiti il 16% dei depositi bancari fra marzo 2011 e marzo 2012, in tutto il 30% dal 2009: è già più di quanto accadde in Argentina con il default. In Spagna l’emorragia dei depositi è stata del 4-5% fino a marzo scorso e da allora è certamente proseguita. E in Italia? Secondo le stime della Bce, i depositi nel marzo di quest’anno erano del 2% superiori rispetto a un anno prima. Ma esistono delle fragilità: un principio di ritiri dai conti correnti alla fine dell’anno scorso fa sì anche ancora a primavera scorsa i depositi bancari italiani fossero dello 0,7% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel dicembre del 2010. Molti in Italia, in Germania, in Francia o in Spagna si stanno comportando come se temessero la fine dell’euro. Cercano di prepararsi alla fine dell’unione monetaria. Ed è così che la stanno rendendo possibile. tabella: Il livello dei depositi bancari. Dati in miliardi di euro. Fonte: Banca centrale europea, Banca dei regolamenti internazionali, Bruegel. marzo 2012 / Variazione /Variazione nell’ultimo anno nell’ultimo mese Grecia 171 -16,7% +0,5% Irlanda 195 -0,2% +0,5% Spagna 1.665 -4,2% +0,2% Belgio 479 +2,4% +1,2% Cipro 49 +2,2% +0,2% Portogallo 229 +0,7% -1,8% Lussemburgo 219 +3,9% +1,7% Italia 1.414 +2,0% +0,3% Malta 10 +12,3% -0,1% Francia 1.906 +7,9% +0,1% Germania 3.094 +4,3% 0% Olanda 859 +4,6% +0,7% Slovenia 21 +3,5% +0,1% Austria 322 +5,2% +0,9% Slovacchia 39 +7,3% +1,2% Finlandia 127 +7,9% +2,2% Federico Fubini