Lorenzo Salvia, Corriere della Sera 13/06/2012, 13 giugno 2012
GLI INVESTIMENTI FERMI E GLI SPRECHI. L’ACQUA A UN ANNO DAL REFERENDUM —
Era giusto un anno fa, 13 giugno del 2011. Un po’ a sorpresa, visto che non succedeva dal 1995, il referendum sull’acqua raggiunge il quorum. Dopo una campagna elettorale partita «dal basso», che aveva spiazzato i partiti, una valanga di sì cancella due norme. La prima disegnava un percorso a tappe per far salire la partecipazione dei privati nelle società che gestiscono il servizio. La seconda, più tecnica ma altrettanto importante, diceva che alle stesse società doveva essere garantito un profitto, perché nel calcolo della bolletta bisognava tener dentro anche la remunerazione del capitale investito. Un anno dopo non è cambiato nulla.
Nel mondo un miliardo e 300 mila persone non hanno accesso all’acqua potabile ma in Italia continuiamo a sprecarla come nulla fosse: i nostri impianti sono malmessi e ne perdono per strada più di un terzo, il 38%. Per sistemare le cose servirebbero 65 miliardi di euro in 30 anni, dice uno studio di Althesys, una società indipendente di ricerca. Ma fra incertezza delle norme e crisi economica gli investimenti sono fermi, nelle nostre città le tubature continuano a gocciolare mentre nel resto del mondo si muore di sete. E il Forum italiano dei movimenti dell’acqua, figlio del comitato promotore del referendum, dice che il «voto degli italiani è stato calpestato», anzi parla di «alto tradimento della democrazia». Che cosa è successo?
Il vero nodo è proprio quello del profitto. Nonostante il risultato del referendum continuiamo a pagare la cosiddetta remunerazione del capitale, che in bolletta pesa tra il 10 e il 20%. È vero che la soluzione non è semplice dal punto di vista tecnico ma dopo un anno non si è mossa una foglia e il Forum dell’acqua ha lanciato una campagna di «obbedienza civile»: in 20 mila, un po’ in tutta Italia, hanno calcolato per conto loro quella voce in bolletta e hanno deciso di non pagarla. Venti giorni fa l’Autorità per l’energia, che dopo il referendum ha preso in carico anche il settore idrico, ha messo sul sito internet la sua proposta per cambiare il sistema delle tariffe. Un documento aperto alla consultazione pubblica, cioè solo un primo passo in attesa di suggerimenti e modifiche. Ma che ha già attirato l’attenzione di molti dove parla di oneri finanziari sul capitale immobilizzato. «Si tratta — dice Paolo Carsetti, rappresentante del Forum sull’acqua — di garantire anche per il futuro quel principio del profitto che il referendum ha cancellato e che ancora adesso continuiamo a pagare in bolletta. È la stessa tecnica usata per il finanziamento pubblico dei partiti: cancellato con un referendum e poi reintrodotto con un nome diverso, rimborso elettorale». Come finirà?
Alessandro Marangoni è un professore della Bocconi ed è l’autore di quello studio che, come altre ricerche, fissa a 65 miliardi gli investimenti necessari per rendere efficente la nostra rete: «È vero che l’acqua è una risorsa naturale da tutelare — dice — ma portarla nelle case ha un costo. Per questo serve un processo industriale e quindi tariffe che consentano all’operatore almeno di svolgere la sua attività». Al momento le bollette italiane sono tra le meno care d’Europa, anche se restano grandi differenze da città a città. Ci sono anche distorsioni clamorose come la quota sulla depurazione fatta pagare persino dove il depuratore non c’è. Ma tutti sono d’accordo sulla necessità di ammodernare quella rete che, battuta vecchia ma efficace, fa acqua da tutte le parti. Fra patto di stabilità che impedisce ai comuni di spendere, incertezza delle norme e difficoltà ad ottenere credito, Adolfo Spaziani — direttore generale di Federutility, l’associazione delle aziende del settore — dice che non riescono a partire «4,5 miliardi di progetti già cantierabili che porterebbero 60 mila posti di lavoro». Sarebbe solo un pezzo di quei 65 miliardi considerati necessari nei prossimi 30 anni. E se questa è senza dubbio un’opportunità sprecata la vera domanda è chi dovrebbe metterci soldi.
Il professor Marangoni dice che pensare solo a risorse pubbliche «con l’attuale situazione finanziaria dell’Italia e dell’Europa è purtroppo solo un bel sogno». E per questo sostiene che «serve l’aiuto dei privati», immaginando un gioco a somma positiva: considerando gli acquedotti, un investimento da 18,5 miliardi avrebbe un beneficio da 42,4 miliardi, dei quali 14 arriverebbero solo dalla riduzione degli sprechi. Ed è proprio qui che entra in gioco l’altro referendum, quello sull’ingresso dei privati nelle società. Qui a far discutere non è la violazione del risultati del referendum ma la sua lettura politica. Il risultato di un anno fa non vieta di aumentare la partecipazione dei privati ma cancella l’obbligo di farlo. A Roma, tra polemiche e rissa in consiglio comunale, il sindaco Gianni Alemanno vuole comunque cedere il 21% dell’Acea. A Napoli il Comune ha deciso di «ripubblicizzare» l’acqua, scegliendo come assessore ai Beni comuni Alberto Lucarelli, professore di diritto pubblico, uno degli estensori dei quesiti di un anno fa. La vecchia spa è stata trasformata in un’azienda speciale, nel consiglio d’amministrazione ci saranno anche i rappresentanti dei cittadini. E di investimenti privati, Lucarelli non vuole proprio sentir parlare «Pensare di risolvere tutto così è un falso mito. Da quando i privati sono entrati nel settore, gli investimenti sono scesi del 65% mentre le tariffe sono aumentate del 70%. Nessuna sorpresa, il mercato ha cercato di ottimizzare i profitti proprio riducendo gli investimenti». Tutto pubblico, dunque, per di più a Napoli dove i problemi sono tanti: «Questo non vuol dire aumentare il deficit o le tasse. Oltre alla fiscalità generale e alle tariffe, ci sono piani di finanziamento europeo che finora non sono stati sfruttati a dovere. Anche questo è denaro pubblico e noi partiremo proprio da qui».
Lorenzo Salvia