Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 12 Martedì calendario

Ecco perché tassare le bollicine fa evaporare l’economia - In Francia, patria dei sapientoni, l’anno scorso hanno messo una tassa sulle bevan­de non alcoliche

Ecco perché tassare le bollicine fa evaporare l’economia - In Francia, patria dei sapientoni, l’anno scorso hanno messo una tassa sulle bevan­de non alcoliche. L’hanno chiamata «tassa anti-obesità» perché i cugini d’Oltralpe vo­gliono essere tutti filiformi come madame Carlà e sono convinti che Coca-Cola e Fanta facciano ingrassare. Risultato: il mercato di quelle bibite ha perso il 3 per cento, lo stato ha incassato meno Iva e non ha rispar­miato un solo euro nella spesa sanitaria. Da noi il governo dei tecnici, sempre a caccia di nuo­ve tasse, vorrebbe allinearsi. La chiamerebbero accisa, come quella sulla benzina, forse perché sempre di liquidi si tratta. In pratica, una stangata sulle famiglie masche­rata da crociata salutista. I consumatori, gli ambientalisti, ora anche i governi: c’è sempre qual­cuno che periodicamente si scaglia contro la Coca-Cola. Fa proprio così male la bibita più desiderata dai bam­bini (e non solo) di tutto il mondo? Di sicuro fa bene all’economia dei Paesi in cui viene venduta. Prendiamo il caso dell’Italia: otto impianti di imbottiglia­mento, 3.300 dipendenti diretti e 45.300 con l’indotto (produttori, fornitori, clienti, di­stributori), 3 miliardi 163 milioni di euro di valore aggiunto prodotto di cui il 40 per cen­to (1 miliardo 251 milioni) finisce all’erario sotto forma di tasse. Quando scoprì per caso la formula della Coca-Cola nella sua farmacia di Atlanta, mi­ster John S. Pemberton mai avrebbe pensa­to che stava pia­ntando il seme di una multi­nazionale che avrebbe rivoluzionato le abi­tudini di mezzo pianeta. E che sarebbe di­ventata una delle colonne dell’industria ali­mentare mondiale. Ieri sono stati presenta­ti i dati di una ricerca sull’impatto socio- eco­nomico della Coca-Cola in Italia condotta dal professor Ethan B. Kapstein, docente di economia politica all’Insead (Istituto euro­peo di amministrazione degli affari). I numeri documentano che la multinazio­nale più famosa del globo è in realtà una somma di aziende nazionali, dotate di strutture produttive e distributive pro­prie in ogni Paese in cui opera. Le filiali della Coca-Cola Company di Atlanta gestiscono il marchio e il marke­ting mentre le società di imbottigliamento acquistano da essa i concentrati e gli scirop­pi, le famose «basi» protette dal segreto più impenetrabile al mondo, e confezionano milioni di bottiglie. Nel loro portafoglio ita­liano sono annoverati 118mila clienti. «Facciamo il caso che la Coca-Cola deci­desse di chiudere i suoi centri produttivi in Italia- ha ipotizzato Kapstein- per importa­re dall’estero le bibite con i vari marchi e te­nere aperti soltanto i canali distributivi. In questo scenario l’economia italiana perde­rebbe 221 milioni di euro di valore aggiunto e quasi 3.500 posti di lavoro». Ipotesi pura­mente teorica, si sono affrettati a puntualiz­zare a una voce sola Salvatore Gabola, diret­tore degli affari pubblici per l’Europa della Coca-Cola Company, e Alessandro Magno­ni, direttore delle relazioni esterne di Coca­Cola Hbc Italia. I manager della bibita non se la prendono con il governo, ci manche­rebbe, nemmeno loro stanno preparando crociate. Le loro campagne sono soltanto pubblicitarie, e anche questo è un contribu­to al Pil del nostro affannato Paese. Tuttavia non nascondono che un’eventuale «tassa sull’obesità» che colpisca le bevande zuc­cherate avrebbe un impatto «molto impor­tante » sui loro conti. «Noi vogliamo docu­ment­are e rivendicare il ruolo primario del­l’industria privata come motore della cresci­ta », dice Gabola. Il quale ritiene che «appli­care imposte su un solo prodotto sia un ap­proccio ingiustificato e incomprensibile». Kapstein racconta un episodio capitato a un’altra grande azienda del settore agroali­mentare in un Paese africano. ’ Il governo di quella nazione voleva imporre un dazio sui prodotti agricoli importati. L’azienda con­vinse i responsabili delle politiche fiscali a fare l’opposto, cioè ridurre le tasse sui pro­duttori locali per facilitare la loro attività, senza gravare sul prezzo finale. La risposta del mercato interno fu incredibilmente po­sitiva, con la produzione cresciuta e un note­vole guadagno fiscale. La riduzione del pe­so tributario comporta un aumento del getti­to complessivo, su questo tutte le scuole eco­nomiche concordano’. Dovrebbero saperlo anche i professori del nostro governo. Invece, come rileva Kap­stein, ’i governi di soliti guardano soltanto gli effetti diretti e immediati della tassazio­ne, mentre non considerano gli effetti indot­ti, l’impatto economico complessivo’.