Stefano Filippi, il Giornale 12/6/2012, 12 giugno 2012
Ecco perché tassare le bollicine fa evaporare l’economia - In Francia, patria dei sapientoni, l’anno scorso hanno messo una tassa sulle bevande non alcoliche
Ecco perché tassare le bollicine fa evaporare l’economia - In Francia, patria dei sapientoni, l’anno scorso hanno messo una tassa sulle bevande non alcoliche. L’hanno chiamata «tassa anti-obesità» perché i cugini d’Oltralpe vogliono essere tutti filiformi come madame Carlà e sono convinti che Coca-Cola e Fanta facciano ingrassare. Risultato: il mercato di quelle bibite ha perso il 3 per cento, lo stato ha incassato meno Iva e non ha risparmiato un solo euro nella spesa sanitaria. Da noi il governo dei tecnici, sempre a caccia di nuove tasse, vorrebbe allinearsi. La chiamerebbero accisa, come quella sulla benzina, forse perché sempre di liquidi si tratta. In pratica, una stangata sulle famiglie mascherata da crociata salutista. I consumatori, gli ambientalisti, ora anche i governi: c’è sempre qualcuno che periodicamente si scaglia contro la Coca-Cola. Fa proprio così male la bibita più desiderata dai bambini (e non solo) di tutto il mondo? Di sicuro fa bene all’economia dei Paesi in cui viene venduta. Prendiamo il caso dell’Italia: otto impianti di imbottigliamento, 3.300 dipendenti diretti e 45.300 con l’indotto (produttori, fornitori, clienti, distributori), 3 miliardi 163 milioni di euro di valore aggiunto prodotto di cui il 40 per cento (1 miliardo 251 milioni) finisce all’erario sotto forma di tasse. Quando scoprì per caso la formula della Coca-Cola nella sua farmacia di Atlanta, mister John S. Pemberton mai avrebbe pensato che stava piantando il seme di una multinazionale che avrebbe rivoluzionato le abitudini di mezzo pianeta. E che sarebbe diventata una delle colonne dell’industria alimentare mondiale. Ieri sono stati presentati i dati di una ricerca sull’impatto socio- economico della Coca-Cola in Italia condotta dal professor Ethan B. Kapstein, docente di economia politica all’Insead (Istituto europeo di amministrazione degli affari). I numeri documentano che la multinazionale più famosa del globo è in realtà una somma di aziende nazionali, dotate di strutture produttive e distributive proprie in ogni Paese in cui opera. Le filiali della Coca-Cola Company di Atlanta gestiscono il marchio e il marketing mentre le società di imbottigliamento acquistano da essa i concentrati e gli sciroppi, le famose «basi» protette dal segreto più impenetrabile al mondo, e confezionano milioni di bottiglie. Nel loro portafoglio italiano sono annoverati 118mila clienti. «Facciamo il caso che la Coca-Cola decidesse di chiudere i suoi centri produttivi in Italia- ha ipotizzato Kapstein- per importare dall’estero le bibite con i vari marchi e tenere aperti soltanto i canali distributivi. In questo scenario l’economia italiana perderebbe 221 milioni di euro di valore aggiunto e quasi 3.500 posti di lavoro». Ipotesi puramente teorica, si sono affrettati a puntualizzare a una voce sola Salvatore Gabola, direttore degli affari pubblici per l’Europa della Coca-Cola Company, e Alessandro Magnoni, direttore delle relazioni esterne di CocaCola Hbc Italia. I manager della bibita non se la prendono con il governo, ci mancherebbe, nemmeno loro stanno preparando crociate. Le loro campagne sono soltanto pubblicitarie, e anche questo è un contributo al Pil del nostro affannato Paese. Tuttavia non nascondono che un’eventuale «tassa sull’obesità» che colpisca le bevande zuccherate avrebbe un impatto «molto importante » sui loro conti. «Noi vogliamo documentare e rivendicare il ruolo primario dell’industria privata come motore della crescita », dice Gabola. Il quale ritiene che «applicare imposte su un solo prodotto sia un approccio ingiustificato e incomprensibile». Kapstein racconta un episodio capitato a un’altra grande azienda del settore agroalimentare in un Paese africano. ’ Il governo di quella nazione voleva imporre un dazio sui prodotti agricoli importati. L’azienda convinse i responsabili delle politiche fiscali a fare l’opposto, cioè ridurre le tasse sui produttori locali per facilitare la loro attività, senza gravare sul prezzo finale. La risposta del mercato interno fu incredibilmente positiva, con la produzione cresciuta e un notevole guadagno fiscale. La riduzione del peso tributario comporta un aumento del gettito complessivo, su questo tutte le scuole economiche concordano’. Dovrebbero saperlo anche i professori del nostro governo. Invece, come rileva Kapstein, ’i governi di soliti guardano soltanto gli effetti diretti e immediati della tassazione, mentre non considerano gli effetti indotti, l’impatto economico complessivo’.