Roberto Petrini, la Repubblica 13/6/2012, 13 giugno 2012
CONTI PUBBLICI TASSI IN AUMENTO COSTANTE E RECESSIONE COSÌ SI RISCHIA UN BUCO DI 6-8 MILIARDI
ANDARE avanti con i boccaporti blindati sperando di non imbarcare acqua. Al giro di boa dei sei mesi e mentre la tempesta si abbatte nuovamente su euro e spread i conti pubblici italiani sono oggetto di sorveglianza continua. «L’emergenza non è finita», ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco a Venezia sabato scorso, situazione «difficilissima », ha aggiunto il viceministro dell’Economia Vittorio Grilli ieri aggiungendo che «non c’è crescita senza rigore». La linea dunque sembra quella di tenere ad ogni costo, come dimostra il «nyet» della Ragioneria generale dello Stato alla prima versione del decreto Sviluppo che inizialmente sarebbe dovuto costare fino a 4 miliardi ed oggi è praticamente svuotato.
Del resto il bilancio delle previsioni di aprile sull’Italia dei vari organismi, dal Fmi, alla Commissione europea, all’Ocse, sebbene abbia confermato la tenuta del quadro di intervento sui conti pubblici costato 85 miliardi nel biennio 2012-2013, non è rassicurante. E’ la recessione — quella che ha fatto parlare la Corte dei
Conti di pericoloso «avvitamento » della nostra economia — il fattore critico. L’Italia nell’ultimo Documento di economia e finanza (Def) ha previsto una caduta del Pil dell’1,2 per cento, ma la Commissione è già a meno1,4 e l’Fmi a meno 1,9 per cento. Le conseguenze sulla contrazione del gettito si sono già viste nei primi quattro mesi dell’anno: mancano 3,4 miliardi rispetto alle stime del Def, come hanno regolarmente annunciato nei giorni scorsi RgS e Dipartimento delle entrate in una nota congiunta che ha destato clamore. Se la perdita di gettito continuerà al ritmo di meno di un miliardo al mese e per la crisi molte aziende risultassero insolventi al
momento di versare l’Iva, alla fine dell’anno potrebbero mancare all’appello 6-8 miliardi.
Così per quest’anno l’opzione di una manovra resta aperta, a meno che non si decida — come ormai sembrerebbe scontato — di utilizzare i 4,2 miliardi della spending review di Giarda e Bondi per contenere il deficit e non per scongiurare l’aumento dell’Iva di due punti previsto per ottobre. Sempre che — ma bisognerà attendere i dati dell’autotassazione — non vengano in aiuto di Monti gli uomini dei Befera e delle Fiamme Gialle con il recupero dell’evasione fiscale che potrebbe superare i 12 miliardi.
I problemi tuttavia non sono finiti perché l’effetto Spagna e il rischio contagio mettono un’ipoteca sulla spesa per interessi. Il cosiddetto “tesoretto”, cioè la riserva prudenziale messa in campo nel dicembre scorso con il “Salva Italia”, in previsione di uno spread a quota 500, non c’è più. Il governo infatti dopo aver elevato, nei momenti più acuti della crisi, la spesa dagli 85,8 miliardi di Tremonti a 94,2 miliardi, nel Def di aprile ha ridotto la spesa per pagare Bot e Btp: con spread che galleggiavano sotto quota 300 (il 16 marzo il differenziale con il Bund era a 281) la stima di spesa è stata ridotta a 84,2 miliardi. Non si poteva fare altrimenti, per rispettare le regole di contabilità: ora con lo spread a 475 le cose si rabbuiano nuovamente. Secondo i calcoli di Antonio Forte del Cer se il Btp a dieci anni rimanesse all’attuale 6,2 per cento e il Bot arrivasse fino al 2,8 per cento (oggi è al 2,1-2,3 per cento) gli 84 miliardi sarebbero sufficienti. Ma se i tassi aumentassero oltre le soglie raggiunte nelle aste di maggio, l’attuale equilibrio salterebbe. Manca dunque un «cuscinetto» di precauzione che rende ancora meno manovrabili i conti pubblici e rischia di lasciarci lottare a mani nude contro la speculazione.