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 2012  giugno 12 Martedì calendario

INTELLETTUALI RETICENTI SUL DISSENSO IN URSS - I

funerali di Boris Pasternak, ai primi di giugno del 1960, furono il momento in cui la vecchia generazione del dissenso sovietico passò idealmente il testimone a scrittori più giovani. Il divieto di pubblicazione del Dottor Zivago in Unione Sovietica aveva messo fine alle illusioni generate dal disgelo, cioè quel breve periodo in cui, dopo le rivelazioni di Nikita Krusciov sui crimini di Stalin al XX Congresso del Pcus (1956), gli intellettuali russi avevano sperato di poter praticare qualche forma di libera espressione. Adesso, mentre Svjatoslav Richter suonava al pianoforte verticale nella dacia di Peredelkino, in molti venivano a rendere onore a Pasternak e ai sogni di quella stagione. C’è una foto che ritrae la veglia funebre: in primo piano, vicini alla bara, si riconoscono Andrej Sinjavskij e Julij Daniel, destinati a diventare, di lì a breve, gli uomini simbolo della nuova dissidenza.
Sinjavskij aveva all’epoca 35 anni, era stato soldato semplice nella Seconda guerra mondiale e si era poi laureato all’Università di Mosca con una tesi su Maksim Gorkij. Qualche anno dopo la morte di Stalin (1953), si era fatto conoscere per una serie di articoli sulla rivista letteraria «Novyj Mir», nei quali aveva elogiato la Achmatova, Babel, Esenin e lo stesso Pasternak (prendendo, invece, di mira poeti conformisti dell’età staliniana, quali Sofronov e Dolmatov). Dopodiché, nei primi anni Sessanta, avrebbe dovuto fare i conti con la censura, per aggirare la quale aveva assunto il nome di Abram Terz (ebreo di Odessa, noto borsaiolo, reso celebre da una canzone della mala) e aveva fatto pubblicare i suoi testi all’estero. Impresa per la quale gli avrebbe dato una mano, come traduttore, Julij Daniel, che si era camuffato dietro il nome di Nikolaj Arzak.
Già dal gennaio del 1962 apparvero sulla stampa dell’Urss articoli che puntavano il dito contro i «falsi antisovietici» contenuti in alcuni scritti di «un certo Abram Terz», «falsi» voluti dai «soliti mestatori della Guerra fredda». Segno che da almeno tre anni le autorità sovietiche erano sulle tracce dei due. Quando furono certe della loro identità, su denuncia di alcuni amici di Sofronov e Dolmatov, presero a pretesto un pamphlet di Sinjavskij contro il realismo socialista e lo trascinarono in giudizio assieme a Daniel, che lo aveva tradotto. L’accusa sosteneva che i due erano «rei di aver contrabbandato all’estero, pubblicandoli presso case editrici ostili, i propri scritti diffamatori del sistema politico e sociale del loro Paese»; di conseguenza erano da considerarsi «doppiogiochisti, rinnegati e traditori della Patria». I due imputati ammisero la paternità degli scritti, ma ne rivendicarono la liceità dal momento che pubblicare all’estero non era di per sé un reato; le opere in questione — sostenevano poi — erano creazioni letterarie e non potevano in alcun modo rientrare nella categoria della propaganda antisovietica.
Strano dibattimento. Stalin era scomparso da 13 anni, da due era stato deposto anche Krusciov, si entrava nell’era di Leonid Brežnev e però per questo genere di processi in Urss poco era cambiato. Certo, venti o trent’anni prima i dissidenti sarebbero andati direttamente al patibolo, mentre adesso si finiva «soltanto» nel gulag. Ma in quel febbraio del 1966 accadde qualcosa di veramente insolito: per la prima volta (con l’eccezione, forse, di quel che era accaduto nel 1964 a Leningrado, dove il poeta e futuro premio Nobel Josif Brodskij, accusato di «parassitismo», non aveva collaborato con i giudici), gli imputati respinsero le accuse con energia e tennero in aula un atteggiamento combattivo. Questo nonostante prima del dibattimento, proprio al fine di piegarli, fossero stati segregati nel carcere della Lubjanka per ben cinque mesi, dal settembre del 1965 al febbraio dell’anno successivo.
Scriverà di loro Varlam Šalamov, l’autore de I racconti di Kolyma: «Fosse successo vent’anni fa sarebbero stati fucilati in qualche sotterraneo della polizia segreta o sarebbero stati sottoposti all’istruttoria stile "catena di montaggio", quando gli inquisitori si danno il cambio mentre l’accusato è costretto nella stessa posizione per molte ore, per molti giorni, finché la sua volontà è spezzata e la psiche non lo regge più; oppure li avrebbero uccisi addirittura in corridoio». Invece, sempre secondo Šalamov, «sono stati i primi ad accettare la lotta, dopo quasi cinquant’anni di silenzio; il loro esempio è grande, il loro eroismo indiscutibile… hanno rotto con l’obbrobriosa tradizione dei pentimenti e delle confessioni».
La principale accusatrice fu una loro collega mandata in aula dall’Unione degli scrittori: Zoja Kedrina, che li aveva già denunciati in più di un articolo sulla «Literaturnaja Gazeta». Victor Dmitrievic Duvakin, che era stato professore di Sinjavskij, volle testimoniare a favore dell’allievo, con il risultato di perdere la cattedra e di ritrovarsi a fare l’aiuto bibliotecario. L’accusa convocò poi come teste a carico lo studioso d’arte Igor Golomstok, ma lui rifiutò di fare i nomi di chi gli aveva dato da leggere le «opere proibite» di Sinjavskij e dovette subire, per questo, qualche mese di prigione. Andrej Mensutin, che con Sinjavskij aveva curato un libro sulla poesia nei primi anni successivi alla rivoluzione d’Ottobre, fu licenziato dall’Istituto di letteratura mondiale per essersi comportato come Golomstok. Dina Kamiskaja, indicata da Daniel come proprio avvocato, dovrà rinunciare perché le autorità le impediranno financo di mettere piede nelle vicinanze del tribunale. Ma sarà lei a rendere nota la determinazione dei due scrittori, decisi a difendere le proprie convinzioni e il diritto ad esprimerle; determinazione che aveva costretto molte persone a riconsiderare il proprio punto di vista circa l’atteggiamento morale da tenere in circostanze del genere.
Il processo durò quattro giorni, dal 10 al 14 febbraio del 1966. Il 15 febbraio, la sentenza: sette anni di lavoro forzato a Sinjavskij e cinque a Daniel. Il regime cui vennero sottoposti i due letterati era tra i più severi. Prevedeva la possibilità di scrivere solo due volte al mese ed esclusivamente ai parenti stretti; un incontro l’anno con un congiunto e altre tre volte, nell’arco degli stessi dodici mesi, brevi colloqui alla presenza dei secondini. Nient’altro. Scrisse la «Pravda» che il responso dei giudici era stato accolto «dagli applausi del pubblico presente». Quella sera, però, un centinaio di persone tra le quali Aleksandr, figlio del poeta Sergej Esenin, e Vladimir Bukovskij si riunirono ai piedi del monumento a Puškin per solidarizzare con i due condannati. E anche questa fu una novità.
Sul caso fu redatto da Aleksandr Ginzburg, con grande rapidità, un Libro bianco che la Jaca Book pubblicò in Italia già nel 1967. Ginzburg fu trascinato, a sua volta, a processo nel gennaio del 1968 assieme ad altri tre suoi compagni, tutti e quattro detenuti illegalmente per un anno: Jurij Galanskov, Aleksej Dobrovolskij (che si piegherà e accuserà i compagni), Vera Laskova (incriminata per aver battuto a macchina il Libro bianco). Nuove condanne e nuove proteste. Stavolta le guida Andrej Sacharov, assieme a Larisa Bogoraz e Pavel Litvinov. Nell’aprile del 1968 inizia a uscire come samizdat (stampato in proprio) il periodico «Cronache degli avvenimenti correnti», che dà voce al dissenso. È il 1968: purtroppo in Europa occidentale, tranne qualche rara eccezione, il movimento degli studenti non mostra grande sensibilità nei confronti di questi temi.
Scontata la prigionia, Daniel riprese a fare il traduttore, ma con il nome Petrov, stavolta per imposizione delle autorità sovietiche che pretesero di far sparire lui o quantomeno il suo nome dalla storia della letteratura del Paese. Morì nel 1988, pochi mesi prima del crollo del Muro di Berlino. Sinjavskij fu più «fortunato»: condannato ancora ad altri anni di gulag, nel 1973 fu scambiato con due spie sovietiche e poté espatriare prima negli Stati Uniti, poi in Francia; sopravvisse alla fine del comunismo, si stabilì definitivamente a Parigi dove insegnò alla Sorbona e ottenne — negli ultimi vent’anni di vita, prima della scomparsa (1997) — i riconoscimenti che meritava. E fu ancora al centro di un caso letterario per via del libro che aveva scritto nei primi mesi di prigionia, Passeggiate con Puškin, che adesso Jaca Book pubblica con un’avvincente postfazione di Sergio Rapetti. Lo stesso Rapetti che sul caso Sinjavskij-Daniel aveva scritto un saggio magistrale, L’altra contestazione: la resistenza all’arbitrio e alla menzogna nel mondo del dissenso russo, pubblicato sempre da Jaca Book nel ricco volume curato da Pier Paolo Poggio L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico.
Ma torniamo al caso del 1966. Il Pen Club promosse una manifesto internazionale a favore dei due scrittori. Lo firmarono in Gran Bretagna Cyril Connolly, E.M. Forster, Rosamond Lehmann, Angus Wilson, negli Stati Uniti W. H. Auden, Saul Bellow, Mary MacCarthy, Edward Albee, Lewis Mumford, J.R. Lowell, Arthur Miller, Robert Penn Warren, Dwight MacDonald, Norman Mailer; in Francia Jean Cassou, Pierre Emmanuel, François Mauriac, Alain Robbe-Grillet, ma nessun intellettuale vicino al Partito comunista francese.
Può apparire strano ma, come ha fatto notare Mario Margiocco in Stati Uniti e Pci (Laterza), il Partito comunista che in Europa si mostrò più sensibile al caso Sinjavskij-Daniel fu quello spagnolo, guidato da Santiago Carrillo. Un partito che si batteva in clandestinità contro la dittatura di Francisco Franco e che colse l’occasione per manifestare il proprio dissenso dall’Unione Sovietica, la quale già da due anni aveva avviato una politica di distensione con il regime di Madrid. I comunisti spagnoli furono dunque paradossalmente i più decisi a prendere le parti dei due scrittori sovietici, ma le loro posizioni furono poco conosciute e restarono agli atti esclusivamente come primo seme di quello che dieci anni dopo avrebbe preso il nome di «eurocomunismo».
In Italia invece il Pci si barcamenò: espresse «preoccupata riserva», ma, si affrettò a specificare, «senza una facile dissociazione di responsabilità». Ed enfatizzò la circostanza che il processo non si fosse svolto a porte chiuse: «No, il pubblico c’era anche se selezionato», scrisse «l’Unità». All’appello del Pen Club aderirono, tra gli intellettuali italiani, Libero Bigiaretti, Diego Fabbri, Ignazio Silone, Giancarlo Vigorelli e, tra quelli (relativamente) più vicini al Pci, Alberto Moravia e Italo Calvino.
Particolarmente impegnato a favore di Sinjavskij e Daniel fu un articolo di Arrigo Benedetti sull’«Espresso». Al quale rispose con toni sprezzanti il direttore dell’«Unità» Mario Alicata, accusando Benedetti di essersi associato ad uno dei «soliti tentativi di speculazione» contro l’Urss. Perché, si chiedeva Alicata, se «in Italia Benedetti, che è repubblicano, ha il diritto di invocare giustamente le leggi contro le attività antirepubblicane», in Urss non si dovrebbe avere il diritto di «invocare la legge contro le attività antisovietiche?». Poi, tornando ai «tentativi di speculazione», Alicata si rivolge a Benedetti con queste parole: «Lasci questo triste mestiere a chi — come Silone, per esempio — è da tempo professionista in questo campo. E dorme sonni beati quando — e capita tutti i giorni — gli Stati "liberali" e "democratici" (come l’America e il Belgio, per esempio), ammazzano a man salva, a casa propria e fuori, chi si azzarda a contestare il sistema». La replica di Benedetti è sferzante: «Noi tutti — compreso Mario Alicata — viviamo in un Paese libero», nel quale si possono discutere le leggi quando sono inique e liberticide e criticare i giudici quando sono ingiusti o «diventano comici»: «Che hanno di diverso i giudici russi? Sono unti da una recondita divinità verso cui non si può sollevare lo sguardo senza tremare?».
Alicata, ha fatto notare Nello Ajello in Il lungo addio. Intellettuali e Pci dal 1958 al 1991 edito da Laterza, scomparve poco dopo il caso Sinjavskij-Daniel: «Certi toni scomposti non sono più obbligatori. La prudenza reticente prevale sull’aggressività missionaria. E tuttavia una qualsiasi condanna della burocrazia culturale sovietica, forse la più ottusa della storia, si fa ancora attendere mentre, con Berlinguer, una nuova generazione arriva al vertice del partito. L’intellighenzia comunista italiana rischia perfino di venir sopravanzata da quella centrale di conformismo che è sempre stato il Partito comunista francese. Lì il poeta Louis Aragon, direttore delle "Lettres françaises", a chi nel 1969 gli domandava se Aleksandr Solzhenitsyn e il suo dissenso non diffamassero l’Urss, rispondeva ruvidamente di non capire come, in Unione Sovietica, si potessero proibire al pubblico "libri che testimoniano, con tanta elevatezza, del nostro secolo". E aggiungeva: "Occorre dire ai nostri amici sovietici che diffamante per il loro Paese è piuttosto il trattamento inflitto a quello scrittore". Occorrerebbe questo rovesciamento di responsabilità (non è indecoroso criticare un regime, è indegno censurare le critiche) per segnare il vero distacco da un cerimoniale invecchiato».
Due mesi dopo il processo a Sinjavskij e Daniel, nel corso del congresso del Pcus che si tiene a Mosca, uno dei più grandi scrittori «ufficiali» sovietici, Michail Šolochov, definisce «scribacchini» i due artisti mandati al Gulag. Stavolta interviene, sempre sull’«Espresso», Alberto Moravia che così si indirizza a Šolochov: «La tua idea dell’arte rappresenta un pericolo non soltanto per l’arte dell’Unione Sovietica, ma del mondo intero».
Renato Guttuso, invece, secondo Ajello, «si sforza con qualche pena di distinguere», nella prassi giudiziaria in vigore a Mosca, fra «critica» e «calunnia» ed esprime la sua speranza in «riforme che modifichino le leggi repressive». Incalzato, sull’«Espresso», da Paolo Milano e Manlio Cancogni, Guttuso dice: «La posizione di "preoccupata riserva" è quella di comunisti che parlano di altri comunisti e quindi li debbono criticare con un linguaggio diverso, respingendo la speculazione che è stata fatta sul caso, montata artificiosamente e in modo veramente mostruoso». Se c’è qualcosa di mostruoso, protesta dunque il pittore, è la speculazione che si è fatta sul caso Sinjavskij-Daniel. Guttuso insiste sul tema della consanguineità tra comunisti italiani e sovietici: «Il nostro dissenso è la critica di persone che si sentono corresponsabili perché militano nello stesso partito e che perseguono stessi obiettivi». Per poi concludere con argomenti al limite del credibile: «Sappiamo che Sinjavskij ha pubblicato in Urss su riviste sovietiche saggi che, a detta di chi li conosce, sono perfettamente conformi alle linee generali del partito. E questa non è una cosa che deponga a favore di Sinjavskij, il quale all’interno scriveva in un modo mentre all’estero… Non sono io che ho fatto le leggi sovietiche, tuttavia un artista non deve fare il doppio gioco, ma difendere le sue idee senza ricorrere a sotterfugi».
La rivista del Pci, «Rinascita», stronca i due scrittori appena condannati a Mosca con un velenoso articolo di Gian Carlo Pajetta. «Il processo», scrive Pajetta, «ha suscitato una ripresa di antisovietismo fazioso e interessato: dobbiamo condannare queste manifestazioni e lo facciamo con convinzione e anche con sprezzo». Il processo, dice Pajetta, «si è svolto nel rispetto formale della legge e delle procedure vigenti» e solo «osservatori ostili all’Unione Sovietica» possono negare questa circostanza. Ma coraggiosamente esce allo scoperto un giovane comunista esperto di letteratura russa, Vittorio Strada. Strada fa osservare: «È certo che alla propaganda antisovietica giova di più una sentenza come quella emessa contro Daniel e Sinjavskij che non tutti i libri pubblicati da questi ultimi all’estero». Però a merito di «Rinascita» va detto che la rivista fondata da Palmiro Togliatti apre sul tema un dibattito tra i lettori dove si affacciano — nella proporzione di una a dieci — opinioni, come quella di Giuseppe Baglio, favorevoli ai due scrittori condannati. Anche Umberto Terracini è, pur tra molte cautele, in dissenso con l’opinione prevalente nel suo partito e lo scrive in un articolo pubblicato sull’«Unità» il 19 febbraio di quel 1966.
Ma il caso più clamoroso è quello che investe Leonardo Sciascia. Nel giugno del 1966 Vsevolod Kocetov, direttore della rivista russa «Oktjabr», viene in Italia accompagnato da una dirigente della commissione esteri dell’Unione degli scrittori sovietici, Irina Ogorodnikova. Tornato in Unione Sovietica, Kocetov scriverà un articolo sul settimanale «Ogonëk» in cui racconterà di aver incontrato alcuni romanzieri italiani che gli avevano dato giudizi negativi su Sinjavskij e Daniel. Tra questi Leonardo Sciascia che gli avrebbe detto: «Prima di tutto l’azione dei vostri letterati in incognito non suscita qui da noi nessuna simpatia. Se un uomo onesto non è d’accordo con qualche cosa, lo dica apertamente. E se si permette di avere due facce, non è più un uomo onesto. In secondo luogo non ho letto i loro libretti tanto strombazzati. I libri attorno ai quali incomincia il chiasso politico, io non li leggo… possibile che nelle decine di libri sovietici editi in questi ultimi anni in traduzione italiana, non si vedano "gli aspetti singolari di quel mondo"?». Come dire: bisognava aspettare quei due per sapere qualcosa di vero dell’Urss?
Di nuovo scendeva in campo Vittorio Strada che, in un articolo su «Rinascita», evitava di attaccare Sciascia ma non risparmiava Kocetov. Sullo stesso numero di «Rinascita» compariva una precisazione di Sciascia: «Io parlavo in italiano, Kocetov in russo, l’interprete che lo accompagnava in francese e in russo… quel che volevo dire è che ritenevo non si avesse il diritto all’indignazione in un Paese come il nostro, dove esiste un articolo di legge simile a quello per cui i due scrittori erano stati condannati in Russia e dove l’obiezione di coscienza viene duramente punita». E, aggiungeva, «trovo che spesso si traduca velocemente qualche mediocre opera, purché esprima dissenso» In sostanza Sciascia ammetteva di aver detto a Kocetov le cose che questi aveva riportato. Solo dieci anni dopo, in coincidenza con il suo allontanamento dal Pci (dopo una polemica con Renato Guttuso ai tempi del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro) e con il suo ingresso nel Partito radicale, Sciascia avrebbe rivisto quei giudizi.
Ciò che stupisce di queste vicende è che si siano svolte non già nell’Urss staliniana e nei partiti comunisti (o tra gli scrittori, i pittori, i cineasti che per essi simpatizzavano) nell’età in cui l’Europa doveva fare i conti con il fascismo, il nazismo, la guerra. No, siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, da oltre un decennio sono state rivelate al mondo le nefandezze di Stalin, si vive una stagione di modernizzazione senza precedenti, eppure l’attenzione alle parole d’ordine provenienti dall’Urss per tanti (quasi tutti gli intellettuali d’area Pci) viene prima dell’evidenza dei fatti. E i nomi di Sinjavskij e Daniel non verranno nemmeno presi in considerazione per entrare nel Pantheon della nascente nuova sinistra.
Le cose andarono quasi meglio in Unione Sovietica. Pochi giorni dopo la condanna, 62 membri dell’Unione degli scrittori dell’Urss indirizzarono una lettera al Presidium del XXIII Congresso del Partito comunista e ai Soviet supremi di Urss e Repubblica russa per chiedere un «atto saggio e umanitario»: quello di rimettere in libertà i condannati sotto la responsabilità dei firmatari.
Invece nell’intellighenzia dell’emigrazione russa si ebbe una singolare controversia su Sinjavskij. Nel 1975, quando uscì la prima edizione di Passeggiate con Puškin, molti esponenti del dissenso in esilio — tra i quali Aleksandr Solzhenitsyn — mossero critiche, che Rapetti definisce «sbrigative e spesso ingiustificate» al libro, accusandolo di non aveva tenuto nel debito conto le «più recenti» opere di esegesi su Puškin. Sinjavskij se ne ebbe a male in primo luogo, disse, perché era evidente fin dalle pagine iniziali di Passeggiate con Puškin che la sua voleva essere un’opera letteraria e non saggistica. Poi perché, anche se avesse voluto scrivere un saggio critico, sarebbe stato difficile ottenere di poter consultare quei «recenti» volumi su Puškin nel campo in cui era rinchiuso: «Dietro al filo spinato avrei dovuto trovarli!». E, dietro il pretesto che Sinjavskij era stato criticato anche dai dissidenti, molti di quelli che anni prima lo avevano denigrato a tutela del loro rapporto con il Partito comunista, poterono esimersi dal rivedere, come invece fece Sciascia, quei loro antichi giudizi.
Paolo Mieli