Enzo Golino, la Repubblica 10/6/2012, 10 giugno 2012
LO STESSO DESTINO NON SAPER VIVERE
Era la Regina degli incantamenti, funesti o amorevoli, orgogliosi o pudichi, assoluti o contraddittori, veementi o sommessi, imposti o subiti, timorosi o sprezzanti: un groviglio esistenziale non solo autobiografico documentato in alcune pagine memorabili e che fin dal titolo dell’opera prima —
Angelici dolori
— sembra indicare le spine del suo carattere e della sua scrittura. «È il mio gastigo, quando mi metto a vivere: non so vivere », confessa Anna Maria Ortese (Roma 1914 — Rapallo 1998). Un cruccio che la opprime, ma resiste così: «Ogni volta che voglio vivere scrivo». Oltre alle opere strettamente letterarie e al lavoro giornalistico, la corrispondenza è un altro percorso — forse il più immediato e istintivo, privo di filtri professionali — dove la Ortese si apre all’esercizio pratico e faticoso della vita, parlando di sé, tessendo il filo di rapporti che magari non durano molto. E dalla sparsa esistenza di presumibili epistolari inediti emergono le lettere a Elsa Morante (Roma 1912-1985) pubblicate in queste pagine insieme a quella — già nota — a Pietro Citati che in gran parte la riguarda, scritta dopo la morte di lei e con meno enfasi rispetto a quando era in vita.
Nella nota che presenta i materiali morantiani sulla rivista
Il Giannone
da lui diretta, Antonio Motta ricostruisce gli esordi di una conoscenza fra le due scrittrici. Sono entrambe a Roma nel giugno 1937 alla Festa del libro, ed è la Ortese che da lontano vede la Morante, accanto a Moravia, nello stand allestito da Bompiani, ma non ha il coraggio di avvicinarsi (racconta a Stefano Malatesta in una intervista per
Repubblica,
16 settembre 1986). Si seguono più o meno, da lontano, la stanziale Elsa e la nomade Anna Maria: ma quando nel 1965 da Vallecchi esce
L’iguanal’accoglienza
di pubblico e critica è deludente, e vende appena mille copie. Nelle successive edizioni quella Adelphi 1986 è forse la più fortunata e suscita la rivalutazione del romanzo — effetto Adelphi? — persino da parte di alcuni sodali del Gruppo 63 la cui idea di avanguardia letteraria non contemplava la scrittrice.
Ma l’occhiuta Morante, fin dall’anno della pubblicazione, era stata molto decisa nel definire
L’iguana
un capolavoro segnalandone qualche «stridore» nel finale. Se ne accorgono in pochi, ammette la Ortese, che però ne terrà conto — precisa Motta — quando Rizzoli ristamperà il testo. D’altronde, altre occasioni non solo epistolari rivelano quanto alta e appassionata fosse l’ammirazione di Anna Maria che nuovamente si manifesta per
La Storia,
il discusso romanzo del 1974, letto l’anno successivo.
Calore e partecipazione distinguono la lettera del 16 maggio 1975 interamente dedicata al libro, oggetto di adesioni favorevoli e di polemiche violente, tra le quali l’intervento di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi, Umberto Silva sul
Manifesto
(18 luglio 1984). Le parole chiave adoperate dalla Ortese nell’interpretazione della vicenda e dei personaggi di
La Storia
sono «stima umana», «persona umana», «dolore più vicino», «VI-VENTE libro», «emozione», «vita»: un apparato di sentimenti e un impianto lessicale che le sono congeniali. Trascurato invece, e lo afferma con forza, dai lettori di professione ai quali riserva la botta finale: «E solo la vita — a umiliazione dei critici — è
forma
». Nella sua estetica incombe il dolore, scolpito in frasi lapidarie come slogan: «la musica funebre della gioia che finì». Nelle tre righe del
Post Scriptum
riesce persino a disegnare un miniautoritratto psicologico: esaltazione e negazione del proprio narcisismo.
Ancora il dolore: muore Carina, secondogenita di Aracoeli, protagonista dell’omonimo romanzo morantiano. Il forsennato dolore materno attira l’interesse della Ortese, in sintonia con quel dolorismo — l’ideologia del dolore — che in misura diversa accomuna le due scrittrici. Ma non sa quando le scrive il suo «giudizio penetrante», così definito da Motta, che pochi giorni prima dell’invio epistolare la destinataria ha tentato il suicidio. Informata del triste episodio, qualche settimana dopo le manda una letterina, ultimo atto di una amicizia che non l’ha schiodata dalla consuetudine di darle del Lei, ovviamente con l’enfatica maiuscola.
E proprio in questa lettera affiora il ricordo della visita di Anna Maria a Elsa nella casa di via dell’Oca, a Roma, attigua a Piazza del Popolo, probabilmente nel 1965 come arguisce Motta sottolineando l’aura leggendaria che già circondava l’autrice di
Menzogna e sortilegio
(Premio Viareggio 1948),
L’isola di Arturo
(1957), per di più ritenuta da uno studioso di rilevanza internazionale come György Lukács «uno dei massimi talenti di scrittore che io conosca». Spicca in quell’incontro l’accenno a un particolare gastronomico piuttosto ardito: «arance con la panna». Anna Maria le avrà gradite?
“Cara Elsa Le scrivo”
Cara Elsa Morante, un mese fa ho letto
La Storia.
Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. La stima che io ho di Lei, persona umana, è molto alta. Come scrittore, solo poche Sue pagine di scura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto
La Storia,
e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana. Con un dolore più vicino. Dopo il primo giorno mi è accaduto questo: non avevo più memoria di tutte le cose — anche immense — finora lette. Ancor meno mi ricordavo di me. Pensavo — seguendo la disperazione senza luce di soccorso della madre di Ida: qui siamo tutti — è detto tutto. È resa giustizia a tutti noi che fuggiamo. — Quando dico noi, dico un’umanità, semplicemente. La
grazia e purezza del bambino! Ma Nino, poi, quando torna — morto nel pensiero della madre — e non vuole morire, è immenso. Qui tornava quella prima sensazione «è stata resa giustizia».
Voglio ricordare qua e là, di questo VIVENTE libro, la luce in cui si muove — colorando le strade, la gioia di Useppe. I piccoli interni familiari. La polvere povera, tutta voci. I rossi orrori che accadono all’uomo, di epoca in epoca. Quando il libro è finito, resta il senso dell’epoca. Siamo un po’ cambiati. Della letteratura non ci ricordiamo, e questo è bene. Ma sì del dolore umano. E questo dolore, che è intramontabile, diviene l’ombra che va avanti, la musica funebre della gioia che finì, ma in eterno porrà quesiti alla ragione.
Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita — a umiliazione dei critici — è forma.
Mille auguri per il domani!
Stia bene!
Sua [P. S.] Non ho letto prima, perché volevo essere sola col mio giudizio. Non le do il mio indirizzo, perché spero che non mi ringrazi. Siamo già tanto umiliati da immagine false e scambi di grazie o inchini. Il mio omaggio a Lei, almeno, sia libero.
Rapallo 12.4.83
Cara Elsa Morante, In
Aracoeli,
la breve vita di Carina è una delle pagine più alte della letteratura italiana di ogni tempo. Dissi, ad amici, quanto questo libro, per me, fosse importante — coraggio e tristezza così rari in questi anni di nulla — ma dissi soprattutto di quel ritratto: che per sapienza ricorda — e non a me sola —
l’oro di sogno di
Las Meninas.
La breve quiete — nel vivere — di Carina, la sua infinita preziosità e dolcezza — sono davvero cosa immortale.
Sia contenta, dunque, cara Elsa Morante, di quanto ha avuto in dono — e ancora cerchi, nel suo giardino, quanto è nascosto. Pazienza, col proprio corpo, e anche con la propria anima. Vi saranno “risposte”, sulla pagina; vi saranno altri doni, per cui Lei non potrà dire grazie, agli Dei o al Dio della Bellezza, che ricordando le proprie catene. Allora le saranno meno pesanti.
E poi, non è detto che non possano allentarsi da sole. Il mondo non è che un grande prodigio. Non vedere che sia prodigio, non muta la sua natura di fiaba.
Un abbraccio. Un grazie. Un augurio di gioia Sua A. Maria Ortese