Omero Ciai, la Repubblica 10/6/2012, 10 giugno 2012
“SENZA DI LUI SIAMO PERDUTI” TRA I POVERI DI CARACAS CHE GIÀ PIANGONO CHÁVEZ
DAL NOSTRO INVIATO CARACAS
— Dal palazzo presidenziale di Miraflores alla sede del Consiglio nazionale elettorale in avenida Bolivar c’è poco più di un chilometro. È la prova suprema, la distanza che Hugo Chávez, gravemente malato, dovrà percorrere domani per iscriversi come candidato alle elezioni del 7 ottobre (per la sua quarta rielezione dopo il 1998-2000-2006). E lo farà a modo suo, sicuramente in auto, attraversando due ali di sostenitori festanti, per dimostrare a tutti che è ancora lui il candidato imbattibile, astuto e istrione come sempre. Da mesi le sue condizioni di salute sono un segreto di Stato e l’incertezza sul futuro dilania un paese spaccato in due — e palesemente irriconciliabile — con filo chavisti da una parte, impegnati a rendere irrevocabile la «rivoluzione bolivariana »; e anti chavisti dall’altra, determinati ad evitarlo.
Hugo Chávez, presidente-padrone del Venezuela da tredici anni, è malato per un tumore nella zona pelvica dal giugno dell’anno scorso. Si è operato due volte all’Avana e si è sottoposto a vari cicli di chemio e di radioterapia che lo hanno tenuto lontano dal paese — governava via twitter — per diversi mesi. Le ipotesi sulle
sue possibilità di recupero sono tutte negative e le diagnosi, comunque «al buio» e sui sintomi, visto che dall’ospedale di Cuba non è mai filtrato nulla, gli concedono da un minimo di sei ad un massimo di dodici mesi di vita. Lo riconosce anche Juan, un operaio chavista, che milita nella «Mission Milagro» (missione miracolo), il programma in joint venture con Cuba grazie al quale ogni mese un centinaio di venezuelani, poveri e senza mutua, vanno ad operarsi all’Avana a spese del governo dell’isola castrista che, in cambio di questo e altri piani di solidarietà, riceve 130mila barili di greggio al giorno, circa il 5% della produzione venezuelana. Oggi è giorno di partenza e mentre gli ammalati sottoscrivono l’impegno a garantire ognuno almeno dieci voti per Chávez alle elezioni, Juan scuote la testa. «Che fine faremo senza il presidente?». Ha quattro by-pass al cuore («Senza Chávez e Fidel sarei morto perché non avrei potuto pagare l’intervento », dice) e descrive scenari scoraggianti convinto che il malato, nelle stanze di Miraflores, sia più grave di quello che vogliono fargli credere. «Questa rivoluzione finirà con lui», conclude.
Per la coalizione antichavista, la Mud, il presidente è «un irresponsabile », che dovrebbe curarsi e candidare un successore, evitando di gettare il paese nei rischi di un vuoto di potere presentandosi per un nuovo mandato
che nessuno sa se riuscirà neppure ad iniziare. Ma Chávez è fatto così. Prendere o lasciare.
D’altra parte non ha costretto i funzionari del ministero degli Esteri a sloggiare diversi piani del palazzo quando si è trattato di trovare rifugio agli sfollati di un alluvione? E non ha versato attraverso l’holding statale dell’oro nero, Pdvsa, 51 milioni di euro alla scuderia di Formula 1 della Williams per far correre Pastor Maldonado, il suo pilota preferito? Gestire senza intermediari il bilancio dello Stato è il sigillo del suo modo di governare. Anzi, di più, il suo obiettivo principale è sempre stato quello, usando il petrolio, unica ma fenomenale
fonte d’ingresso del paese, di costruirsi portafogli praticamente personali. Iniziò nel 2002 con l’assalto alla cassaforte di Pdvsa, ma l’operazione più riuscita è il «Fondo Chino». Due tranche da 4 miliardi di dollari di prestiti da Pechino — la prima nel 2007, la seconda in queste settimane — a cambio di 400mila barili di petrolio al giorno a prezzo scontato per la Cina. Il Fondo è amministrato personalmente da Chávez che in questo modo inizia la costruzione di case popolari mai terminate e lancia nuovi programmi di assistenza per il suo popolo: quasi la metà, povera e indigente, dei venezuelani. E la «rivoluzione» avanza anche se nelle farmacie
manca l’acqua ossigenata mentre il controllo sui cambi e l’incertezza giuridica allontana qualsiasi investimento internazionale.
L’inflazione al 30 percento, il doppio regime cambiario (quello ufficiale e quello «in nero»), l’esplosione della criminalità e la diffusa corruzione nelle pieghe del regime, avevano restituito spazio all’opposizione che, due anni fa, era riuscita per la prima volta a vincere le elezioni parlamentari.
Più voti (52 a 48 percento) ma non più seggi. Quanto bastava però per prefigurare la possibilità di una svolta anche alle presidenziali. Dalle primarie — tre milioni di votanti — è uscito un quarantenne
moderato, Henrique Capriles, che sembrava in grado di strappare all’altro fronte gli elettori meno radicali, quei pezzi di classe media bassa infastiditi dall’indottrinamento martellante della propaganda ideologica e spaventati dalla criminalità. Ma la malattia sembra aver giocato a favore di Chávez che a quattro mesi dal voto è in netto vantaggio nei sondaggi. Alternative nello schieramento bolivariano d’altra parte non ce ne sono. Nessuno dei tre possibili delfini del caudillo ha speranze di raccogliere tutta la sua eredità nelle urne. Né il ministro degli Esteri, Nicolas Maduro, il più vicino ai cubani; né il presidente del Parlamento,
Diosdado Cabello, preferito dai militari; né, infine, il fratello governatore di Chávez, Adan. Così l’unica soluzione è rimasta quella del leader ammalato. «Vogliono conservare il potere salendo sul carro funebre del presidente», denunciano i giornali dell’opposizione convinti che Chávez non riuscirà neppure a farla la campagna elettorale.
Anche Caracas, come il resto del paese, è divisa in due fazioni: a nord aristocrazia e classe media; a sud e sulle colline, le favelas. I primi temono che alle elezioni neppure ci si arrivi, i secondi — come l’operaio Juan — scrutano le apparizioni del presidente e soffrono per la sua malattia. «Qui succederà quel che decideranno le Forze Armate», dice preoccupata Milagros Socorro, editorialista de El Nacional.
È la «soluzione egiziana» che molti analisti dipingono come probabile. L’esercito è quello che ha più da perdere sia nel caso di sconfitta che di scomparsa di Chávez. Generali accusati per narcotraffico dalla Dea americana, ufficiali corrotti, forte ridimensionamento dell’influenza dei militari nella politica e nella società se dovesse cambiare scenario. Dunque, si specula, in caso di inabilità di Chávez è l’esercito che potrebbe assumere il potere con un «governo provvisorio» con la scusa di mantenere la pace e l’ordine fra due fazioni politiche inconciliabili.