Federico Rampini, la Repubblica 10/6/2012, 10 giugno 2012
ANGELA E LA DOTTRINA DEL GENERALE POWELL
dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI VENEZIA
È FATTA, parte il più grande piano di salvataggio della storia. Potrebbe arrivare “fino a” 100 miliardi di euro, pur di impedire il crac del sistema bancario spagnolo.
FINALMENTE l’eurozona mette in campo l’artiglieria pesante. Il Fondo monetario sarà un “sorvegliante esterno”, il che sancisce di fatto un ruolo indiretto per Barack Obama (gli Usa sono il primo azionista del Fmi). Che cosa garantisce che questa sia la “soluzione finale”? Basterà questa terapia d’urto a bloccare il contagio da Grecia e Spagna — già in preda a fughe di capitali — verso l’Italia e la Francia? Sarà questo l’inizio di un’inversione di marcia, rispetto alla spirale distruttiva dell’austerity che genera recessione e nuovi debiti? Molto dipende da come sarà “somministrata” la nuova cura ai banchieri, con quali condizioni e imposizioni, perché non si ripetano gli errori del 2008. Con la disoccupazione alle stelle, l’impoverimento delle classi lavoratrici, il dimagrimento del Welfare State in corso, la Spagna rifiuta giustamente che gli aiuti alle banche siano condizionati a nuovi tagli di spesa sociale. Di più: non è politicamente sostenibile per nessuno, tedeschi per primi, una nuova emorragia di fondi pubblici in favore dei banchieri, senza contropartite tangibili da estrarre alle banche stesse. Qui a Venezia dove partecipa al Consiglio per le relazioni Italia-Usa, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco mi conferma quanto sia essenziale la costruzione di una vigilanza bancaria europea: che non esiste. Non è solo un prezzo che la Spagna deve accettare di pagare, sottoponendo i suoi istituti di credito a un’authority sovranazionale: è un tassello di quella “unione bancaria” europea (con assicurazione federale dei depositi, come negli Usa) senza la quale queste crisi saranno destinate a ripetersi altrove.
L’Eurogruppo sembra voler intimorire i mercati con la sua versione della “dottrina Colin Powell”, dal nome del vincitore della prima guerra del Golfo: in combattimento bisogna andare con una soverchiante superiorità di mezzi. «Fino a 100 miliardi », dunque, se necessario. Cos’ha spinto a rompere finalmente gli indugi, e a piegare l’orgoglio spagnolo che fino all’ultimo ha sprecato tempo prezioso? Da una parte cresceva sui mercati il nervosismo sull’elezione greca ormai vicinissima che può ancora segnare il primo passo verso l’uscita di uno Stato membro dall’euro. Obama ha accentuato l’allarme, con un pressing senza precedenti sui leader europei, e ora sappiamo ancora meglio il perché: il downgrading delle banche americane indica che il contagio dall’Europa non si trasmette più soltanto attraverso i canali dell’economia reale (crollano le nostre importazioni, si assume di meno in America)
ma anche attraverso Wall Street dove i big della finanza fanno i conti delle perdite. Infine la Germania finalmente capisce che non ha nulla da guadagnare se continua a spingere verso la depressione paesi che rappresentano il 42% dei suoi sbocchi di esportazione.
Non passa inosservato in Germania l’appello lanciato sulle colonne del
Financial Times
da Niall Ferguson e Nouriel Roubini, il primo dei quali è un liberale, consigliere sia di David Cameron che del candidato alla Casa Bianca Mitt Romney. Ferguson e Roubini ricordano
che fu una crisi bancaria europea il disastro che accelerò la morte della democrazia
Germania nel 1933. Venerdì era stato Obama a vedere lo spettro di una Grande Depressione, se l’eurozona non agisce con la massima urgenza.
La Germania ha ragione almeno su un punto: non si possono firmare altri assegni in bianco a favore di banchieri incompetenti. L’unione bancaria che hanno in mente Draghi e Visco, e che ora viene cautamente sposata dai tedeschi, significa mettere un guinzaglio sovranazionali ai banchieri di ogni Stato membro dell’eurozona. E anche fargli pagare qualcosa: non a caso rispunta proprio a Berlino la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie. Meglio ancora, spiegano Ferg uson Roubini,
sarebbe una tassa sull’intera esposizione delle banche.
L’eurozona deve studiare tutte le lezioni dell’intervento americano a salvataggio di Wall Street avviato da George W. Bush nell’autunno 2008 e completato da Obama nel 2009—2010; un raffronto va fatto anche con gli interventi di Franklin Roosevelt sulle banche negli anni Trenta. Dopo il crac Lehman, gli Usa non hanno lesinato fondi pubblici per arrestare il contagio: 600 miliardi di dollari di aiuti statali alle banche. La “dottrina Powell” funzionò. Poi lo Stato si è disimpegnato rapidamente, ha recuperato gran parte di quei fondi, e a ricapitalizzare le banche ci ha pensato il mercato, cioè gli investitori privati. È il percorso virtuoso che l’eurozona deve ripetere, per evitare che le banche inghiottano aiuti pubblici a fondo perduto. Ricapitalizzare significa anche che gli istituti più forti comprano i più deboli: la Spagna non dovrà resistere alla prospettiva che un giorno le sue banche maggiori possano finire sotto proprietà tedesca. Dove il modello americano non ha funzionato, invece? Sabotata dalle lobby di Wall Street al Congresso, la riforma della finanza non è andata fino in fondo. Non è passata finora la Regola Volcker che doveva impedire alle banche di speculare con mezzi propri: vedi lo scandalo JP Morgan per il “buco” di 3 miliardi sui derivati, poche settimane fa. Meglio fece Roosevelt quando con la legge Glass-Steagall del 1932 vietò ogni commistione tra banche di depositi (che raccolgono il risparmio dei cittadini) e le banche d’affari che fanno investimenti ad alto rischio.
Il salvataggio delle banche spagnole non si tradurrà in una rapina ai danni dei contribuenti europei, solo se coincide con l’apertura di una cantiere dell’unione bancaria: una vera vigilanza, spiega Visco, deve far capo alla European Banking Authority. Le banche greche italiane e spagnole dovranno avere in casa propria anche ispettori tedeschi, così come una banca del Texas o della California viene vigilata da Washington e New York. È il primo tassello di quella unione politica europea che la Merkel indica come condizione, e a cui Obama ha dato il suo appoggio: cominciando dalla fusione dei sistemi fiscali. Negli Usa l’imposta federale sul reddito è tre volte quella che si paga alla California o allo Stato di New York. Basterebbe un trasferimento anche minore dalle periferie al centro, per dare all’Unione delle fondamenta solide, e ai tedeschi qualche garanzia in più sulla disciplina fiscale dei loro partner.