Emilio Garroni, Repubblica, 12.6.12, 12 giugno 2012
OLIVETTI
Un brano inedito di un’intervista del 1960 in cui racconta la sua filosofia
L’imprenditore utopista: “Educhiamoci alla bellezza”
Adriano Olivetti Morì il 27 febbraio 1960
L’intervista a Olivetti di cui offriamo qui alcuni passaggi è stata realizzata per la Rai nel febbraio del 1960 da , poco prima che Olivetti morisse. È un documento raro, mai apparso in trascrizione su un giornale. Una parte verrà proiettata domani al convegno sulla Fabbrica ai tempi di Adriano Olivetti ideato da Caterina Bottari Lattes e Paolo Mauri, con la Fondazione Olivetti. Il convegno, a Torino al Teatro Vittoria (dalle 9.30), verrà aperto dal sindaco Fassino, con interventi di Gallino, Cerrato, Lupo, Laura Olivetti (figlia di Adriano) e Loccioni, coordinati da Quaranta.
Nel pomeriggio Mauri con Gotor, Bevilacqua, Castronovo e Colombo
Questo non è un vero e proprio documentario ma un incontro con Olivetti vivo, anzi, direi nel pieno della sua attività sempre volta al futuro. I suoi più vicini collaboratori dicono che a Olivetti quasi non interessa il passato, quasi non interessava il passato; interessava solo o soprattutto il futuro. La personalità di Adriano Olivetti è così complessa che non è facile coglierne tutti gli aspetti: industriale, uomo di cultura, scrittore, politico, ideologo e soprattutto suscitatore di un’infinità di iniziative ardite e intelligenti. Dalla creazione di comunità alla capacità di portare la tecnica a misura d’uomo.
Così bisogna sottolineare i suoi sforzi per far sì che il prodotto industriale, nato come qualcosa di semplicemente utile, diventasse anche qualcosa di bello. «La bellezza – dice – è un momento essenziale dello spirito. Senza la bellezza, senza l’esperienza della bellezza, un uomo non sarebbe completo. Ora, anche una macchina da scrivere può essere bella». Ed ecco che nella progettazione dello stupendo nido per i figli dei dipendenti, questa preoccupazione estetica è ancora presente: non basta accogliere i bambini, bisogna educarli alla bellezza, farli vivere in ambienti belli, farli esprimere liberamente, nei giochi, nei disegni. E farli entrare in contatto con i libri.
Quella dell’azienda, è una biblioteca importante, di quanti volumi si compone, Ingegnere?
«Qui è divisa in tre sezioni: c’è una sezione culturale, una sezione scientifica e sociale, e una sezione ricreativa. Tutte le tre sezioni comprendono oltre 50.000 volumi ormai».
Ma vengono qui a leggere gli operai?
«Vengono moltissimo. Questa biblioteca non è mica solo una collezione di libri. Fa parte di un organismo più complesso che è un centro culturale con un insieme di corsi: corsi per giovani, corsi per adulti, corsi complementari, mostre e conferenze. Si tratta in sostanza di educare i giovani alla comprensione dei valori della cultura ».
La biblioteca è dunque molto di più di una biblioteca aziendale; infatti è aperta a tutti, è una vera e propria biblioteca pubblica. E c’è anche la sezione riviste, naturalmente.
«Le riviste tecniche e scientifiche sono ben 400. Ma ancora più importante è il numero delle riviste culturali, più di 350 titoli: insomma, tutte le riviste italiane e straniere più importanti».
Una capacità di lettura notevolissima.
«Ci porta a una situazione superiore a quella così pregevole, così simpatica, dei paesi scandinavi».
Ci sono riviste di architettura?
«Sì, qui c’è una larga rappresentanza delle riviste, non solo di architettura, ma anche di disegno industriale. L’architettura è la forma in cui si esprime una certa società».
La qualifica, questa società?
«Esattamente. Le altre arti invece sono un’espressione libera, una manifestazione dello spirito umano e quindi indipendenti dal tempo e dal luogo».
È vero che a lei capita di venire qui in fabbrica più spesso di domenica che non nei giorni feriali, quando ci sono operai e tecnici al lavoro?
«È vero. La ragione si richiama a certe esperienze molto vecchie. Quando avevo 13 anni mio padre mi mandò a lavorare in un reparto dei trapani, nell’estate del ’14, e ho faticato molto a lavorare nella fabbrica. Ho faticato perché il lavoro di queste macchine non mi attraeva, soprattutto non fissava la mia attenzione. La mente poteva vagare, si stancava».
Lo guardava con un certo sospetto questo lavoro manuale?
«Mah, non era un sospetto, una specie di ritegno, difficoltà veramente a capire come si potesse stare delle ore alla stessa macchina senza imprigionare lo spirito».
Forse lei preferisce vederla tutta ferma, la macchina?
«No, quando la fabbrica è ferma i problemi della tecnica, le macchine, spariscono. Il problema fondamentale dell’uomo diventa più chiaro. E quello è il problema che mi prende quando sono nella fabbrica chiusa, nella fabbrica ferma».
Senta, Ingegnere, lei mi parlava delle sue esperienze quasi infantili, direi, nella fabbrica… vuole continuare a raccontarle?
«Per molti anni questo problema di conciliare l’uomo alla macchina, così, mi ha affaticato. Mi sono persuaso che non esiste una ricetta, non esiste un ordine assoluto. Dovremmo così cercare di capire la questione fondamentale che è quella del rapporto dell’uomo dentro la fabbrica e fuori dalla fabbrica».
Si ricorda quando nacque la prima macchina da scrivere Olivetti?
«Mi ricordo che mio padre espose il primo campione all’Esposizione di Torino nel 1911, proprio oggi l’Italia sta celebrando i cento anni del Risorgimento, ripete l’esperienza del cinquantennio di Torino. Ecco, quella volta là, la prima macchina uscita da questa fabbrica venne esposta con molto interesse».
Come mai suo padre si decise a produrre proprio macchine da scrivere?
«Io credo perché, prima di fare macchine da scrivere, produceva strumenti di misura, soprattutto contatori elettrici, i quali erano offerti in massa alle grandi compagnie di distribuzione dell’energia elettrica che sono i consumatori dei contatori. E quindi mio padre pensava che questo tipo di rapporto non lo rendesse abbastanza indipendente. Era un rapporto di collaborazione, ma anche di dipendenza, e volle produrre qualcosa come una macchina che si vende una per una a tante persone diverse, e questa varietà di distribuzione creava la sua indipendenza a cui teneva moltissimo. Come tutti i pionieri dell’altro secolo era un grande individualista».
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