Massimo Mucchetti, CorrierEconomia 11/06/2012, 11 giugno 2012
INDUSTRIA: GLI AIUTI DI STATO FANNO BENE?
L’Unione Europea deve guidare e finanziare la ristrutturazione dell’industria dell’auto come fece, nel periodo 1980-85, con la siderurgia? La questione è stata riproposta nei giorni scorsi per sostenere la competitività del principale settore manifatturiero del Vecchio Continente, nel quale lavorano 12 milioni di persone. La risposta, che si augurano Sergio Marchionne e il suo collega della Psa-Peugeot Citroen, Philippe Varin, dovrebbe essere positiva: un piano centrale, fatto a Bruxelles, per distribuire su tutti i costruttori il peso delle chiusure e un programma di finanziamenti per scaricare dalle gracili spalle delle aziende a quelle della fiscalità generale il costo delle conseguenti riduzioni del personale, o almeno una parte. Ma il commissario Ue ai Trasporti, Antonio Tajani, ha dichiarato al Financial Times: «Il fenomeno della sovracapacità produttiva riguarda Fiat e Psa, non Audi, Bmw e Mercedes». Marchionne, presidente di turno dell’Acea, l’associazione europea dei costruttori, ha anche proposto dazi contro le importazioni di automobili coreane, visto che Seul non compra quasi nulla dall’Europa. Una simile mossa avrebbe l’indiretto significato di un altolà anche al Giappone, dove la situazione non è tanto diversa. Marchionne, in sostanza, suggerisce un’inversione di tendenza rispetto alla liberalizzazione del mercato dell’auto completata nel 1999 con la fine del contingentamento delle immatricolazioni di vetture provenienti dall’Estremo Oriente.
Ma Fiat e Psa rischiano di rimanere isolate. Volkswagen, poco interessata ai dazi nella sua proiezione globale, ha avvertito che la vera questione è l’efficienza degli stabilimenti, non la loro teorica capacità produttiva. La stessa Renault, che pure in Europa fatica, si espone assai poco sulla linea Marchionne-Varin, forse perché ha una forte partecipazione nella Nissan (che va molto bene).
Comunque vada a finire, quest’ultima querelle europea rivela quanto il rapporto tra industria, mercato e Stato, non obbedisca ai sacri principi sbandierati quando servono alla polemica politica del momento, ma evolva nel tempo e nei luoghi a seconda delle disponibilità di risorse, della storia e dei limiti delle diverse imprese. Sul fronte sindacale italiano, per capirci, la Fiat persegue la contrattazione all’americana e non chiede aiuti al governo anche perché sa benissimo che non c’è trippa per gatti. Tanto è bastato per mesi a fare di Torino la nuova capitale del liberismo tricolore, senza curarsi di inquadrare gli accadimenti della provincia Italia nelle cronache dell’impero Fiat. Che è assai più pragmatico. Sul fronte internazionale, infatti, la Fiat si avvale di importanti aiuti di Stato negli Usa come in Brasile, in Polonia come in Serbia, e ora chiede all’Unione Europea di coordinare le chiusure delle fabbriche in eccesso, chiede cioè al santuario della concorrenza di fare un cartello per ridurre gli oneri di ristrutturazione dei produttori più deboli. Tajani ha parlato. Ma il premier Mario Monti e il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, che dicono? Dopo un recente incontro con Marchionne e John Elkann, Monti disse che il governo riconosceva alla Fiat libertà di investire dove e come voleva. Il che è giusto in generale: ogni impresa è un regno a sé. Ma di fronte alle notizie specifiche, e ai loro potenziali riflessi sull’intero settore dell’automotive italiano, è forse un po’ poco.
MASSIMO MUCCHETTI