Corrado Ocone, la Lettura (Corriere della Sera) 10/06/2012, 10 giugno 2012
FEMMINISTE IN LITE SUL FRONTE DEL PORNO
Era il 2007 quando Franco Volpi scriveva: «Il porno dilaga ed è diventato "porno di massa", eppure, l’elaborazione concettuale del fenomeno è ancora impantanata in moralismi e perbenismo, mentre sarebbe auspicabile, se non altro per la sua diffusione e rilevanza sociale, analizzarlo seriamente dal punto di vista filosofico». Aveva ragione, ma solo in parte: la pornografia è stata ampiamente studiata nell’area culturale nordamericana sin dal momento in cui è diventata uno dei maggiori business del mondo occidentale. E la letteratura sul tema è oggi veramente imponente. Volpi, probabilmente, si riferiva soprattutto all’Italia: a parte i pionieristici studi di Pietro Adamo, che aveva affrontato il tema in una prospettiva libertaria, nel nostro Paese l’argomento era, fino a non molto tempo fa, tabù per gli studiosi, mentre oggi sembra che inizi a essere sdoganato.
Andiamo con ordine e iniziamo da quando, nei primi anni Ottanta, la femminista radicale statunitense Andrea Dworkin definisce il porno un «genocidio culturale delle donne», un tentativo di annullare la loro personalità. Nella pornografia viene esaltato, a suo dire, il dominio assoluto, fisico e morale, dell’uomo sulla donna. Pur senza assumere le posizioni radicali della Dworkin, che arriva a definire di per sé violento e inaccettabile il desiderio maschile, nell’ambito della «filosofia di genere» o femminista l’atteggiamento anti-porno si diffonde, in quel decennio, a macchia d’olio. Facendo fronte comune con i filosofi conservatori, che vedono nella pornografia un segno del declino dell’Occidente, molte filosofe femministe insistono sul concetto di «oggettificazione» (ad esempio Martha Nussbaum).
Nei film pornografici, si dice, le donne sono sottomesse ai desideri maschili non solo di possesso ma anche di umiliazione: sono degradate, ridotte a livelli sempre inferiori di umanità sino ad approssimarsi a quello delle cose. Inutile aggiungere che, in quest’ordine di discorso, il trionfo nella nostra società di una certa immagine di donna-oggetto non è che un epifenomeno di quella situazione di più vasta portata che la pornografia mette in scena (o «fuori scena», secondo l’etimo del termine oscenità). Secondo la sociologa Pamela Paul, autrice di Pornopotere, viviamo in un «mondo pornificato», ove gli stilemi della pornografia travalicano il loro ambito e «contaminano» molte espressioni della creatività umana (dall’arte alla moda). Ad un certo punto, la Dworkin ha fatto fronte comune con Catharine MacKinnon, una giurista dell’Università del Michigan, autrice di un importante volume su pornografia e diritti civili (1988), in cui è affermato che il porno è una pratica di politica sessuale che il potere asseconda per mantenere l’ineguaglianza di genere. Insieme svolgono una battaglia legale per la proibizione della pornografia.
Ma la Corte suprema non intervenne ad annullare ogni attività censoria richiamandosi al primo emendamento (lo avrebbe fatto anche nel caso di Larry Flynt, l’editore della rivista «Hustler», di cui parla l’omonimo film di Milos Forman). Negli anni seguenti, la MacKinnon ha continuato la sua battaglia, arrivando ad affermare un collegamento diretto fra alcuni tragici episodi della più recente attualità (gli stupri etnici nella ex Jugoslavia o gli abusi nella prigione di Abu Ghraib) e l’uso intensivo dei prodotti pornografici nelle caserme. La strategia di risposta al fronte anti porno (che annovera anche scrittori di successo come il Premio Nobel John Coetzee e il compianto David Foster Wallace) si è sviluppata lungo due direttrici: da una parte la decostruzione del topos dell’oggettificazione; dall’altro, l’insistenza sulla portata liberatoria o emancipatoria del porno, anche per le donne e le stesse pornostar. Fra le maggiori esponenti del fronte pro-sex vanno ricordate Nadine Strossen, giurista e presidente dell’Unione americana per i diritti civili, e Laura Kipnis, docente a Chicago. In Difesa della pornografia, Strossen affronta il tema in modo molto razionale, insistendo sul fatto che la pornografia è una libera scelta per i consumatori e un lavoro come un altro per attori e produttori. Inoltre, essa soddisfa bisogni inespressi e può sia aiutare il rapporto di coppia sia portare ad avere una forma di sessualità persone incapaci o impossibilitate ad avere contatti. Più provocatorie le tesi della Kipnis, docente a Chicago, che considera il porno non solo la continuazione della «rivoluzione sessuale» degli anni Sessanta, ma anche più radicalmente una salutare rivolta contro l’estetica e i valori dominanti nel mondo occidentale: una «esplosione vitale» che mostrerebbe la fallacia della nostra cultura.
Si tratta, a ben vedere, di un discorso che chi crede nell’autonomia della cultura non può certo accettare. Né credo che l’affrancamento del porno debba necessariamente passare per la sua assimilazione alla cultura. Più interessante sembra invece la decostruzione che alcuni filosofi pro sex (ma anche Salman Rushdie) fanno delle idee di certo moralismo femminista bacchettone. La prima parte di Pornosofia, il volume con il quale due anni fa Simone Regazzoni ha imposto il tema in Italia, è da questo punto di vista particolarmente efficace. Mostra infatti come, dietro le invettive rivolte contro una presunta degradazione della donna, e dietro la connessa opzione per un rapporto paritario fra i sessi, alcune femministe ripropongano una immagine molto tradizionale, tranquillizzante e «normalizzante» dell’amore, della sessualità e della stessa identità femminile.
Sono perciò loro stesse che, in una sorta di paradosso, finiscono per rinchiudere le donne in una dimensione che fa a pugni con quella tensione alla libertà e alla rottura degli schemi propria del femminismo classico. Regazzoni contesta soprattutto le tesi di Michela Marzano, autrice di un fortunato libro francese del 2002, uscito in questi giorni in italiano con il titolo La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia (Mondadori), tutto giocato sull’antitesi fra erotismo (buono e accettabile) e pornografia (da condannare). La volontà di tracciare confini e operare distinzioni poggia su deboli basi speculative e dà come presupposto ciò che il libro della Marzano dovrebbe dimostrare.
Con occhio attento da studiosa si è invece da sempre posta di fronte al fenomeno del porno Linda Williams, dell’Università della California, autrice di Hard Core (1999) e curatrice della raccolta di saggi Porn Studies (2004). Fedele al motto spinoziano «non ridere, non piangere, non odiare, ma comprendere», la Williams dà della pornografia un’immagine articolata, considerandola sia da un punto vista semantico e istituzionale sia dal punto di vista delle evoluzioni storiche che ha subìto. A ben vedere, è proprio sul richiamo alla pluralità delle situazioni concrete che caratterizzano sia l’atto che il consumo pornografico che si giocherà il futuro dei porn studies. Insieme, forse, ad una sempre più spiccata consapevolezza filosofica della non riducibilità, soprattutto nel nostro mondo, dei rapporti di dominio a qualcosa di statico e ben definito.
Corrado Ocone