Antonio Pascale, la Lettura (Corriere della Sera) 10/06/2012, 10 giugno 2012
UNABOMBER E’ TRA NOI (TECNOFOBICI)
Per un milione di anni siamo stati cacciatori-raccoglitori. Solo diecimila anni fa abbiamo cambiato status. Il fatto è che i cacciatori-raccoglitori non se la passavano male: i resti fossili evidenziano uomini alti e forti. Mangiavano molte specie, 180 e più, tra flora e fauna, pochi acciacchi, niente scoliosi, carie, osteoporosi. La nascita dell’agricoltura cambia tutto: i resti fossili portano la testimonianza del trapasso. La dieta si restringe, dalle 180 specie si passa a 4 cereali, la statura diminuisce, si diventa stanziali, inizia la società predatoria, arrivano le malattie, carie, scoliosi e via con il resto della litania.
Ora, considerato che il nostro cervello si è in gran parte formato nel Paleolitico, ci chiediamo ancora: chi ce l’ha fatto fare? Ma è successo: abbiamo barattato lo stato selvaggio con la cultura.
Con la nascita dell’agricoltura, le nostre azioni diventano un prodotto culturale, dipendono, cioè, dagli strumenti tecnologici con i quali modifichiamo il mondo. Certo i primi agricoltori passavano poche ore con uno strumento in mano, ma già dal Medioevo la tecnologia ha cominciato a diffondersi. Ora occupa tutta la nostra vita. La migliora o la peggiora? Se dovessimo rappresentare su un grafico lo sviluppo della tecnologia (cioè della conoscenza acquisita) e quello dell’intelligenza emotiva, le due linee scorrerebbero parallele solo per un certo periodo, poi l’una, la tecnologia, schizzerebbe verso l’alto, l’altra continuerebbe, in orizzontale, il suo cammino.
In questo divario c’è tutto, la cultura, la passione e la conoscenza e il disagio (le scorie) che tutto questo arreca alla civiltà. Dalla scuola di Francoforte in poi i filosofi si sono accaniti contro la sfera del technium. Una forza autonoma e pericolosa che impoverisce l’anima. Neil Postman parla della sindrome di Frankenstein: «Dopo averla costruita, ci accorgiamo che la macchina inizia a vivere di vita propria, ad avere le sue idee, con le quali modifica le nostre abitudini e il nostro modo di pensare» (la scomparsa dell’infanzia). Theodore Roszak, lo storico che coniò il termine controcultura: «Quanto di ciò che nella società urbano-industriale siamo pronti a identificare come progresso è, a bene vedere, un rimedio contro i danni ereditati dalla precedente tornata di innovazione tecnologica». Ma in fondo ne parliamo ogni giorno anche noi con toni scorati: la forza vitale degli esseri umani diminuisce in proporzione al loro votarsi alle macchine. Non camminiamo più, non scaviamo, non usiamo più le mani, affidiamo la nostra memoria a Google. Ora, a causa di questo divario tra cultura e disagio della civiltà possono nascere sentimenti poco nobili, rabbia, frustrazione e, soprattutto, desiderio di purezza.
Quest’ultimo si instaura ogni volta che pensiamo che un cambiamento (tecnologico) porti a una contaminazione che avrà effetti irreversibili e assoluti sulla nostra primigenia condizione umana. La purezza, in fondo, può essere capita e accettata solo se è intima e nascosta (un personale nucleo incomprimibile) ma dall’imposizione della purezza non nasce niente di costruttivo, anzi. Kevin Kelly nel suo libro, Quello che vuole la tecnologia (Codice edizioni), affronta in un capitolo il tema Unabomber, Theodore Kaczynski, il criminale (ora condannato all’ergastolo) che con i suoi pacchi bomba causò la morte di tre persone e fece diversi feriti. Kelly mette le mani avanti: si rende conto di stare prendendo sul serio le tesi di un pazzo criminale — che viveva come un eremita sulle montagne del Montana —, tuttavia è costretto a riconoscere che Kaczynski, con un PhD in matematica all’Università del Michigan, è lucido su alcuni punti: «Ho letto quasi tutti i libri di teoria e filosofia della tecnologia, ho parlato con i maggior esperti in materia. Ecco perché sono rimasto di sasso quando ho capito che una delle analisi più acute sul technium è stata elaborata da un pazzo criminale». Le sue tesi possono così essere riassunte: a) più è forte la tecnologia, minore sarà la libertà individuale; b) la tecnologia distrugge la natura rafforzando se stessa; c) non potendo essere soggiogata, la civiltà tecnologica deve essere distrutta, non riformata.
Con vari gradi di differenze, la visione critica della tecnologia di Kaczynski (la visione critica, non le bombe) è condivisa da persone comuni, da molti filosofi, da una minoranza di luddisti e da una parte del movimento anarchico (in particolare quello primitivista di Zerzan, Against the Civilization) — in alcuni documenti anarco insurrezionalisti si trovano chiari riferimenti a Kaczynski. Se ammettiamo che le sue critiche siano acute (per esempio: la macchina tecnologica non si può spegnere, vedi Internet), dobbiamo riconoscere però che il primo assioma della sua teoria è falso: la tecnologia non sottrae libertà all’individuo. Nel confronto pratico tra costi e benefici che una nuova tecnologia propone, le persone ritengono che i benefici siano molto di più dei costi, e le possibilità di scelta maggiori delle restrizioni.
Ora, se il primo assioma è falso — ed è falso — l’edificio critico crolla. Unabomber si era ritirato dal mondo civilizzato: viveva senza elettricità, né acqua, cacciava e faceva essiccare la carne, usava una mountain bike, per wc aveva un buco nel pavimento. Tendeva a riprodurre (con molte forzature) quella dimensione di cacciatore-raccoglitore. Bene, è quella dimensione a causare restrizioni. Sarà pure mitica e pura, ma da quelle braccia siamo fuggiti. Nessuno vuole vivere in un tugurio e chi ci vive lotta per migliorare la sua condizione. La nostra vocazione non è la tecnologia, ma la conoscenza: grazie ad essa produciamo strumenti. Purtroppo non esistono reazioni perfette, gli studenti di stechiometria lo sanno bene, ci saranno sempre impurità da gestire. Il meglio che possiamo e dobbiamo fare è gestire con meno costi le scorie.
C’è un altro punto, il più importante, ed è ancora Kaczynski a sottolinearlo (in un’intervista rilasciata dopo il suo arresto): «Voi che sentite la necessità di eliminare il sistema tecno-industriale, sappiate che state di fatto uccidendo molte persone. Se il sistema collassa scoppierà la fame, scompariranno i pezzi di ricambio, non ci saranno agro farmaci e fertilizzanti da cui oggi l’agricoltura è dipendente. E quando non ci sarà più cibo a sufficienza, cosa succederà? In tutti i libri che ho letto finora non ho trovato nessun attivista che ha mai affrontato questa prospettiva».
Vero, i cacciatori-raccoglitori forse erano felici, ma erano in pochi, meno di un milione. I richiami alla purezza di un tempo sono spaventosi. Come è spaventoso (e innaturale) un mondo fermo, cristallizzato. Invece, dobbiamo pensare al mondo in evoluzione: ospiterà, a breve, 9 o 10 miliardi di cittadini. Meglio andare fino in fondo, solo la tecnologia ci potrà far conoscere meglio i costi della tecnologia stessa. Dunque, più che attivisti, più che pessimisti o ottimisti, meglio essere possibilisti, sarà l’abitudine all’analisi caso per caso e la ricerca di un metodo condiviso che ci permetterà di colmare quel divario tra tecnologia e intelligenza emotiva.
Antonio Pascale