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 2012  giugno 10 Domenica calendario

883 E LA MUSICA DA «CANI». ANTROPOLOGIA ELETTRONICA DELLA NOSTRA SCONFITTA - I

Cani sono un gruppo elettropop romano il cui primo album, uscito un anno fa, destò un certo interesse nella scena indie per via dei testi neocrepuscolari, densi di parole quotidiane, ironia antirock e bozzetti facciocosevedogente 2.0. Cose come: «I nati nell’ottantanove hanno reflex digitali e mettono su flickr belle foto in bianco e nero./ I nati nel sessantanove fanno i camerieri al centro e scrivono racconti, ne hanno pubblicati due». Eccetera. Ora, non è sempre un buon segno che di una canzonetta si lodi la dimensione antropologica — come ha fatto Roberto Saviano su Twitter —, ancorché elettronica. Ma tant’è. Quando una decina d’anni fa Edmondo Berselli scrisse (pudicamente?) che gli 883 erano «magari irritanti, ma irrilevanti sociologicamente questo no», non potè fare a meno di attirarsi le smorfie di alcuni critici musicali. Ai quali, in verità, poco interessava che due provinciali con l’aria nerd in quel lontano 1992 inanellassero in rima gerghi e stereotipi cantando così: «Fingi di essere come Berlusconi/ pieno di ragazze e di milioni/ fino a ieri eri come noi invece adesso cosa sei/ Sei uno sfigato». Chi aveva ragione? «Hanno ucciso l’Uomo Ragno», il primo lp degli 883 vendette allora 650 mila copie, cifra sociologicamente significativa. Ma molto stava nelle parole dei titoli delle canzoni: «Sfigato», «Deca», «Te la tiri», «Non me la menare». Con un doppio salto mortale e un po’ di piacere colpevole, i testi di Max Pezzali, per altro politicamente inservibili, apparivano da un certo punto di vista «alto» esotici, cult e persino vagamente liberatori. E un po’ cannibali, trash. Le coincidenze aiutano: si celebra in questi giorni il ventennale dell’uscita del primo album degli 883, e con una certa pompa. Max Pezzali incide nuovamente il disco con l’aiuto di alcuni esponenti della scena hip-hop italiana. Alcune band indipendenti, proteggendosi dietro un misto di naïveté e ironia, intanto, dedicano un disco intero a versioni di pezzi degli 883. Giusto I Cani eseguono qui la loro versione di «Con un deca». Riassume certi sogni notturni di fronte a un tabaccaio chiuso. Recita così: «Resta la soluzione divi del rock/ Molliamo tutto e ce ne andiamo a New York/ Ma poi ti guardi in faccia e dici dov’è/ Che vuoi che andiamo con ste’ facce io e te». Ed ecco, testo a fronte, il sogno americano de I Cani: «Andrò a New York a lavorare da American Apparel», se la tira il personaggio femminile di «Hipsteria», «Io ti assicuro che lo faccio, o se non altro vado al parco e leggo David Foster Wallace». Pietro Citati in una recensione a Apocalittici e integrati del 1964 preconizzava che di lì a breve gli intellettuali «più geniali insinueranno nelle loro poesie qualche verso di Celentano». Quasi trent’anni dopo si poteva dire: magari. Ma adesso? Un poeta italiano trentenne, Alfonso Petrosino, ha insinuato qualche anno fa gli 883 in una sua composizione: «Fermo immobile a Pavia/ sempre con gli 883» Non pare, ma il verso è una ingegnosa versione da Bob Dylan, fermo immobile a Memphis. I Cani, intanto, celebrano più perfidamente l’abbraccio mortale delle canzonette, il loro (e il nostro) fallimento come rocker tutti d’un pezzo: «I nati nel settantanove suonano in almeno due o tre gruppi e fanno musica datata./ I nati nel cinquantanove tengono corsi di teatro e quando va bene si rimorchiano le allieve».
Alberto Piccinini