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 2012  giugno 10 Domenica calendario

QUELLO STATO «INEGUALE» FRA IL GIORDANO E IL MARE

Negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando i primi coloni ebrei cominciarono ad arrivare in Palestina, Ramallah era spesso l’ultima tappa del loro viaggio, il luogo in cui avrebbero trascorso la notte per ripartire all’alba e alzare infine lo sguardo sulle mura di Gerusalemme accese di rosa nella luce del tramonto. La piccola città era allora un fiorente centro agricolo e aveva una importante comunità cristiana. Oggi i cristiani sono pressoché scomparsi, Ramallah conta 25 mila abitanti, ha un grappolo di piccoli grattacieli, un elegante albergo costruito da una società svizzera e un palazzo presidenziale (la Mukata), lungamente occupato da Yasser Arafat, costruito e ricostruito sulla vecchia sede di un edificio ottomano e di un carcere britannico. È il centro politico-amministrativo dell’Anp (Autorità nazionale palestinese) e sarebbe a un tiro di schioppo da Gerusalemme se due varchi di frontiera — il primo israeliano, il secondo palestinese — non rendessero il viaggio un po’ più lungo del necessario.
Da qui il governo presieduto da Salam Fayyad amministra una parte dei territori occupati con un corpo di pubblici dipendenti composto da circa 150 mila persone. I risultati della sua politica economica sono stati positivi. Ha ridotto le spese, ha gestito con prudenza e precisione il bilancio dello Stato, ha favorito la nascita di nuove imprese, ha risvegliato gli «spiriti animali» di una società che ha il bernoccolo degli affari. La disoccupazione si aggira intorno al 18%, ma sale mediamente al 20% quando è sommata a quella molto più alta della Striscia di Gaza (27%). Potrebbe andare molto meglio, mi dicono i miei interlocutori, se Israele non si fosse impadronito dell’acqua, se non avesse di fatto il monopolio del turismo e non avesse riservato ai suoi coloni le terre più fertili della valle del Giordano.
Parlo anzitutto con Ghassan Khatib, direttore del Centro governativo per i mezzi d’informazione e condirettore delle attività editoriali di «bitterlemons», un’associazione israelo-palestinese che promuove «un civile scambio di vedute sul conflitto arabo-israeliano e su altre questioni medio-orientali». Khatib rifiuta la violenza, crede nella soluzione dei due Stati, ma attribuisce al governo di Benjamin Netanyahu lo stallo dei negoziati e non vede per l’Anp altra possibilità fuor che quella di bussare ancora una volta alla porta dell’Onu per ottenere un seggio, come Stato osservatore, nell’Assemblea generale. Non avrebbe il diritto di voto, ma potrebbe accedere ai tribunali internazionali e se ne servirebbe per denunciare i pregiudizi inflitti ai palestinesi dall’occupazione israeliana. Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo, bloccato dal veto americano in Consiglio di sicurezza nel settembre dell’anno scorso, il governo sta lavorando a un progetto di risoluzione e spera di ottenere questa volta un sostegno «qualitativo», vale a dire le firme di tutti i membri dell’Unione europea.
Domando a Khatib se l’iniziativa verrà avviata nella sessione di settembre e mi risponde che Abu Mazen e i suoi consiglieri non hanno ancora deciso i tempi dell’operazione. Suppongo che si chiedano se convenga agire prima o dopo il risultato delle elezioni americane. Se il vincitore fosse Obama, il secondo mandato gli consentirebbe forse di fare ciò che non era elettoralmente opportuno un anno prima. Nella conversazione raccontata in un articolo precedente, un promotore israeliano del dialogo, Daniel Seidemann, mi ha ricordato che Netanyahu, in materia d’insediamenti, ha pubblicamente umiliato Obama costringendolo a un indecoroso passo indietro. Confermato alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti sarebbe forse tentato di regolare un vecchio conto.
Come ingannare il tempo in attesa delle elezioni americane e di altre vicende internazionali, fra cui la politica del Cairo dopo il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane? La risposta che ho più frequentemente ascoltato nelle mie conversazioni di Ramallah è: resistenza non violenta. In una intervista a una pubblicazione economica giordana (Jordan Venture del maggio 2012), Munib al-Masri, un ricco finanziere e uomo politico palestinese, ha detto che occorrono manifestazioni non violente e forme di disobbedienza civile. Vi sono state alcune manifestazioni, in effetti, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, ma hanno avuto luogo sulla scia delle rivolte arabe. Quelle di Gaza, particolarmente numerose (fra 10 mila e 20 mila dimostranti), erano dirette contro la dirigenza politica e sono state duramente represse; mentre quelle di Ramallah e altri centri cisgiordani sono state trattate dall’Anp con una certa benevolenza. Ma Khalil Shikaki, direttore del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (un istituto specializzato in sondaggi) ritiene che le rivolte arabe non abbiano giovato alla causa palestinese. Preoccupato dall’instabilità delle regione, il governo israeliano preferisce lo status quo mentre quello palestinese dice di volere tornare all’Onu, ma non dà prova di grande intraprendenza. Gli avvenimenti degli scorsi anni hanno avuto l’effetto positivo di rendere inutile e indesiderabile il ricorso alla violenza, ma la «non violenza» e la disobbedienza civile sembrano essere soltanto artifici retorici, più proclamati che praticati. Il risultato, secondo Shikaki, è una generale apatia, una sorta di navigazione senza rotta verso l’inevitabile approdo dello Stato unico. L’Anp dichiara di volere la riconciliazione con i fratelli separati di Gaza, ma il gruppo dirigente di Hamas, se le elezioni presidenziali egiziane fossero vinte dal candidato della Fratellanza musulmana, sarebbe probabilmente attratto da un rapporto speciale con l’Egitto. Abu Mazen dichiara che occorre tentare ancora una volta la strada dell’Onu, ma con programmi non ancora precisati e con esiti incerti. Come abbiamo constatato altre volte in passato, il provvisorio, nelle vicende palestinesi, rischia di durare molto a lungo. Quello che sta nascendo di fatto, fra il Giordano e il mare, è uno Stato sui generis in cui israeliani e palestinesi vivono in zone separate, con status differenti, all’interno delle stesse frontiere e hanno relazioni simili per certi aspetti ai rapporti ineguali che si erano stabiliti nell’Impero russo fra gli ebrei del «recinto» (la zona d’insediamento fra Ucraina, Bielorussia, Polonia) e il resto della popolazione russa nell’impero zarista. Le parti naturalmente si sono rovesciate: gli ebrei vestono i panni dei russi, i palestinesi quelli degli ebrei.
Sergio Romano