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 2012  giugno 10 Domenica calendario

GERMANIA ANNI 30 E BARATRO EUROPEO. LA LEZIONE DIMENTICATA DA BERLINO

Manca un minuto alla mezzanotte in Europa?
Nutriamo seri timori che la scelta del governo tedesco di «fare troppo poco e troppo tardi» provochi il ripetersi della crisi della metà del XX secolo, che la nascita dell’integrazione europea aveva voluto scongiurare.
Appare sconcertante che proprio la Germania, di tutti i Paesi europei, abbia dimenticato la lezione della storia. Ossessionati dall’inesistente minaccia dell’inflazione, si direbbe che i tedeschi di oggi attribuiscano maggior importanza al 1923 (l’anno dell’iperinflazione) che al 1933 (l’anno che segnò la morte della democrazia). Farebbero meglio a ricordarsi come una crisi bancaria europea, due anni prima del 1933, contribuì direttamente allo smantellamento della democrazia, non soltanto nel loro Paese, ma da un capo all’altro dell’Europa.
Sono più di tre anni che lanciamo allarmi, invitando l’Europa continentale a fare ordine nei bilanci. Ma non è stato fatto quasi nulla. Nel frattempo, è da due anni che si assiste a una corsa agli sportelli delle banche alla periferia dell’eurozona: i finanziamenti transfrontalieri e interbancari vengono sostituiti da quelli della Bce; e i grossi investitori privati hanno già abbandonato le sponde della Grecia e le altre banche dell’area mediterranea.
Ma adesso il pubblico ha perso la fiducia e la corsa agli sportelli potrebbe prosciugare anche i piccoli depositi assicurati. Se la Grecia uscisse dall’unione monetaria, verrebbero congelati i depositi bancari per essere convertiti in nuove dracme: un euro in una banca greca non sarà più pari a un euro in una banca tedesca. Lo scorso mese i greci hanno ritirato più di 700 milioni di euro dalle loro banche.
Ancor più preoccupante è il fatto che un fenomeno simile si sia verificato anche presso alcune banche spagnole il mese scorso. Il goffo salvataggio di Bankia non ha fatto altro che rinfocolare le preoccupazioni degli spagnoli. Durante una recente visita a Barcellona, ci è stato chiesto con insistenza se era sicuro lasciare i propri risparmi in una banca spagnola. Questo genere di processo è potenzialmente esplosivo. Ciò che oggi appare una disinvolta passeggiata in banca potrebbe trasformarsi in uno scatto precipitoso verso l’uscita. La gente ragiona con la testa e si chiede: a chi tocca adesso?
Come abbiamo discusso nell’incontro del Nicolas Berggruen Institute una decina di giorni fa a Roma, la ricetta per uscire dalla crisi sembra ovvia.
Innanzitutto, occorre avviare un programma di ricapitalizzazione diretta — tramite azioni privilegiate senza diritto di voto — delle banche dell’eurozona, sia quelle centrali che quelle periferiche, ricorrendo all’Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria) e al suo successore, l’Esm (Meccanismo europeo di stabilità).
Il sistema attuale per ricapitalizzare le banche con prestiti sovrani dai mercati obbligazionari nazionali — e/o l’Efsf — si è rivelato un disastro in Irlanda e in Grecia, facendo schizzare verso l’alto il debito pubblico, aggravando l’insolvenza del prestito sovrano e il rischio delle banche, per il crescente travaso del debito nelle loro mani.
Secondo, per evitare la corsa agli sportelli nelle banche europee — una certezza nel caso dell’uscita della Grecia e molto probabile comunque — occorre creare un sistema europeo di assicurazione dei depositi bancari.
Per ridurre il rischio morale (e il rischio ipotecario e creditizio che si accollano i contribuenti europei) sarà necessario introdurre misure addizionali.
Primo, il programma di assicurazione dei depositi deve essere finanziato da adeguati prelievi bancari: potrebbe trattarsi di una tassa di transazione o, meglio, di un prelievo su tutti i passivi bancari.
Secondo, è necessario impostare uno schema bancario grazie al quale i creditori non assicurati delle banche — sia junior sia senior — vengano penalizzati prima che si faccia ricorso ai soldi dei contribuenti per ripianare le perdite bancarie.
Terzo, occorre varare misure idonee a limitare le dimensioni delle banche, per evitare la sindrome del «troppo grande per fallire».
Quarto, occorre adottare un sistema europeo di vigilanza e regolamentazione comune a tutta l’area europea.
È anche vero che l’assicurazione sui depositi, a livello europeo, non potrà funzionare se persiste il rischio di estromissione di un Paese membro dall’eurozona. Sarebbe molto dispendioso garantire i depositi in euro, perché il Paese in uscita dovrebbe convertire tutti i fondi in euro nella nuova valuta nazionale, che si svaluterebbe rapidamente nei confronti dell’euro. D’altro canto, se l’assicurazione dei depositi è valida solo a condizione che il Paese in difficoltà resti comunque nell’eurozona, ciò non basterà a impedire la corsa agli sportelli. Occorre pertanto mettere in atto politiche adeguate per minimizzare il rischio di uscita.
Occorre accelerare l’introduzione di riforme strutturali atte a stimolare l’aumento di produttività. E la crescita dovrà ripartire con nuovi impulsi. Le politiche per raggiungere questo scopo comprendono l’intervento monetario della Bce, un euro più debole, stimoli fiscali al nocciolo dell’economia, riduzione della spesa e investimento nelle infrastrutture alla periferia (possibilmente con una «golden rule» per gli investimenti pubblici), e aumenti salariali in base alla produttività per sostenere il reddito e rilanciare i consumi.
E infine, vista l’insostenibilità di un elevato debito pubblico e di costosi interessi sui prestiti in alcuni Paesi membri, non vediamo alternative all’introduzione di qualche forma di mutualizzazione del debito.
Sono emerse di recente diverse proposte per gli eurobond. Tra di esse, è da preferire la proposta emanata dal Consiglio economico tedesco a favore di un European redemption fund (Erf) — non perché sia la soluzione ottimale, quanto piuttosto perché appare l’unica in grado di placare le preoccupazioni tedesche all’idea di accollarsi un rischio eccessivo.
L’Erf rappresenta uno strumento transitorio che non conduce all’emissione di eurobond permanenti, è sostenuto da adeguate garanzie collaterali ed è sottoposto a condizioni stringenti. Il rischio principale è che una simile proposta, se accettabile per la Germania, comporti tuttavia una perdita di sovranità in materia di politica fiscale nazionale da apparire improponibile per gli altri Paesi dell’eurozona, in particolare Italia e Spagna.
Se sarà inevitabile rinunciare a una fetta di sovranità, esiste tuttavia una differenza tra federalismo e «neocolonialismo» — nelle parole di un leader politico intervenuto all’incontro di Roma.
Finora la posizione tedesca si è dimostrata implacabilmente negativa su tutte queste proposte. Le preoccupazioni tedesche riguardo i pericoli dell’operazione sono tuttavia comprensibili: mettere a rischio i soldi dei contribuenti tedeschi sarà difficile da giustificare se non verranno introdotte riforme incisive nei Paesi periferici. Ma ci vorrà del tempo per renderle effettive. Ricordiamo che la riforma strutturale del mercato del lavoro tedesco non è stata realizzata dalla sera alla mattina, mentre invece l’attuale crisi bancaria europea rappresenta un rischio finanziario che potrebbe esplodere da un giorno all’altro.
La Germania dovrà capire che la ricapitalizzazione delle banche, l’assicurazione europea sui depositi e la mutualizzazione del debito non rappresentano più scelte facoltative, bensì i passi essenziali per evitare la disintegrazione irreversibile dell’Unione monetaria europea. Se non è ancora convinta, dovrà capire che il costo dello smantellamento dell’eurozona sarà di proporzioni astronomiche — per i tedeschi, come per tutti gli altri.
Dopo tutto, l’attuale prosperità economica della Germania deriva in larga misura dall’unione monetaria. L’euro ha dato all’esportazione tedesca un tasso di scambio molto più vantaggioso rispetto al vecchio marco. E il resto dell’eurozona rappresenta la destinazione finale del 42 percento delle esportazioni tedesche. Sprofondare metà di quel mercato in una nuova recessione non rappresenta certo una saggia decisione per la Germania.
In ultima analisi, come la cancelliera Merkel ha riconosciuto la settimana scorsa, l’unione monetaria da sempre lasciava presagire una più stretta integrazione verso l’unione fiscale e politica dei Paesi dell’area euro.
Ma ancor prima di intraprendere questo passo storico, l’Europa dovrà dimostrare di aver appreso gli insegnamenti del passato. L’Unione Europea è stata creata per evitare il ripetersi dei disastri degli anni Trenta. Oggi è venuto il momento in cui tutti i Paesi europei — ma specialmente la Germania — devono rendersi conto di quanto sono pericolosamente vicini a lasciarsi travolgere dagli stessi errori.
NIALL FERGUSON
NOURIEL ROUBINI
(traduzione di Rita Baldassarre)