Irene Bignardi, la Repubblica 11/06/2012, 11 giugno 2012
IL RITORNO DEL CORVO
All’inizio della nostra storia il corvo, o perlomeno colui o colei che si firmava “il corvo”, non era un corvo, ma un “Occhio di tigre”. L’Occhio di tigre che scrisse e firmò oltre mille lettere anonime intrise di odio, vendetta, ossessioni sessuali, paranoia, brutalità, menzogne, piccoli orrori quotidiani, e che non si muoveva sullo sfondo della Francia occupata di Vichy, ma durante la prima guerra mondiale, nel 1917, in una piccola ma non tranquilla cittadina francese del sud ovest occitano, Tulle, di cui François Hollande è stato a lungo sindaco, con una antica cattedrale, il mercato, e un placido fiume, la Corrèze, che scorre affiancato da grandi alberi.
Fu lì che nel 1917 esplose il caso dell’Occhio di tigre. Il caso delle mille lettere che misero a soqquadro l’apparentemente placida vita della cittadina, e produssero una teoria di disastri, dolori, morti, processi, condanne. E sì, l’Occhio di tigre era una donna – di cui possiamo apprendere tutto leggendo l’affascinante studio che Francette Vigneron ha dedicato alla vicenda in
Le calligrafie del corvo, edito da Nutrimenti qualche mese fa. Ma ora l’Occhio di tigre ritorna sotto la più celebre etichetta del Corvo. E non solo nell’attualità vaticana, ma anche nella sua celebre versione cinematografica, rieditata in dvd grazie alla casa di distribuzione Teodora Film, che ci propone Il corvo, il film maledetto realizzato da Henri-Georges Clouzot nel 1943, che si portò dietro per anni la maledizione e l’interdetto della cultura francese – caso affascinante di pregiudizio e di passione ideologica distorta.
È innegabile che il film sia un capolavoro, e non solo del noir ufficiale. Che sia cioè nero nei suoi umori e nella sua visione del mondo. E che si tratti di un capolavoro maledetto.
Riepiloghiamo i fatti. Che all’inizio erano i fatti di Tulle, diventati una sorta di summa dei vizi della provincia francese. Che nel 1927 trovarono degli imitatori a Tolone e suggerirono a un giovane uomo di cinema, Louis Chavance, più tardi montatore dell’Atalante, di scriverci sopra un copione che registrerà alla Società degli autori sotto il nome L’occhio del serpente. Gli stessi fatti che nel 1941 ispirarono a Cocteau la commedia La macchina per scrivere, e due anni dopo a Henri-Georges Clouzot un film da fare sulla base della sceneggiatura dell’amico e coetaneo Chavance… Attenzione alle date.
Perché una buona parte dei veleni che si scaricarono su Clouzot e il suo film, specularmente a quelli “dentro” il film, nascono dall’accusa mossa al regista di aver scelto e trattato un tema denigratorio per la Francia – come se la Francia della storia di Tulle e le sue varianti non avesse avuto conoscenza, o, peggio, come se il soggetto fosse stato inventato per una forma di distorta passione politica.
Il problema, e il capo principale d’accusa nei confronti di Clouzot, stava nel fatto che il regista aveva realizzato il film con una produzione tedesca, la Continentale, creata in Francia dopo l’armistizio e diretta da Alfred Greven, un ex dirigente dell’Ufa, che aveva conosciuto Clouzot a Berlino ai tempi dei film in doppia versione francese e tedesca. A quanto pare Greven non era entusiasta della proposta di Clouzot di fare Il corvo.
Lo trovava un film “estremamente pericoloso”. Ma Clouzot insistette per andare avanti, sotto la propria responsabilità. E lunedì 10 maggio 1943 venne battuto il primo ciack del capolavoro maledetto a Montfort-l’Amaury, un grazioso villaggio della Francia occupata, sul cui sfondo, fotografato da Nicolas Hayer con toni da grande cinema espressionista e naturalista al tempo stesso, si muove la corrotta, crudele, disonesta umanità che il corvo investe con una pioggia di accuse e di lettere.
Risulta che la lavorazione non sia stata facile. La Continentale si preparò a lanciarlo con lo slogan «La vergogna del secolo: le lettere anonime». Ma il comando tedesco di Parigi non era d’accordo: le lettere anonime erano utilissime, guai a scoraggiarle. Clouzot e Greven litigarono.
Quando il film esce, scoppia il caso. I critici ne riconoscono i valori formali. Il pubblico accorre, nonostante il giudizio del Centro Cattolico che lo etichetta “da proscrivere”. Qualcuno mette abilmente in giro la voce che il film sia stato intitolato in tedesco
Una piccola città francese, così denunciando le colpe del carattere nazionale (ma l’Ufa non si sogna neanche di distribuire il film fuori dalla Francia). E nel marzo 1944 un articolo di Les lettres françaises accusa a chiare lettere Clouzot e Chavance di gettare fango sui cittadini della provincia francese «come se seguissero un ordine nazista».
Non basta. Nel settembre 1944 il Comitato di Liberazione del Cinema sospende da ogni attività otto cineasti che hanno lavorato per la Continentale, tra cui Clouzot. Non sospendono Christian-Jacque, che pure di film con l’etichetta Continentale, come Clouzot, ne ha girati due, e che diventa, guarda caso, il grande accusatore. E mentre una bella schiera di intellettuali, tra cui Sartre, de Beauvoir, Carné, René Clair, si attiva a favore di Clouzot e raccoglie le prove che il regista non ha mai pensato a una propaganda antifrancese, L’humanité, Les Lettres Françaises, il partito comunista, Georges Sadoul (che scrive di un film «finanziato da Goebbels», e tanto basti per la precisione storica), sostengono graniticamente la loro condanna di Clouzot. Che, circondato di una luce sulfurea, sarà autorizzato a tornare sul set solo nel 1947, con Quai des Orfèvres, scelto dal Festival di Venezia e premiato per la migliore sceneggiatura.
Inossidabile, L’humanité titola “L’aquila hitleriana sotto le penne del corvo”. Mentre Claude Mauriac, in un appassionato intervento, restituisce a Clouzot, rappresentante di «una lunga tradizione di moralisti», il perduto onore: se un capolavoro come Il corvo esiste, dice, è solo perché la Continentale è stata più aperta di tanti altri produttori, e seppure controvoglia ha prodotto il film.
L’ostracismo che circonda Clouzot comincia a sgretolarsi – ma la fosca immagine che si porta dietro no. Ed è spiegabile. A una prima lettura del film, Clouzot, che non è certo ottimista sulla natura umana, ha realizzato un capolavoro al nero, dove tutti hanno qualcosa da nascondere, dove la sessualità, naturale o distorta che sia, è il motore di una follia individuale e collettiva che non dà certo un ritratto lusinghiero della società francese. In realtà, c’è di che sorridere: perché, a conclusione del suo film, Clouzot celebra il trionfo dell’amore su quella follia, affermando la prevalenza di valori umani. E chiedendo, contro il pregiudizio che colpisce molti dei suoi personaggi e molti personaggi reali, un giudizio basato su autentici valori morali.