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 2012  giugno 10 Domenica calendario

TITOLI, OCCHIELLI E SOMMARI, FIRMATI DAL GRANDE ANDY

«Lui ti prende e tu non riesci più a sfuggirgli» dichiarò Viva, una delle star della Silver Factory di Andy Warhol, poco dopo che l’artista aveva rischiato di morire per un colpo di pistola nel 1968. Gli headline works di Warhol, al pari dei tabloid che li ispirarono, producono un effetto simile: ci "prendono". Si resta bloccati davanti alle versioni disegnate e dipinte dei titoli pubblicati sulla stampa, che l’artista ritagliava e rivedeva per accentuarne l’impatto. Siamo attratti dalle trasposizioni serigrafiche readymade di intere prime pagine. Seguendo il modo in cui punta l’attenzione sulle notizie, zoomando su un particolare per poi tornare al generale, siamo portati a creare i nostri collegamenti indiretti, che spesso si riferiscono all’artista stesso. Guardando indietro alla metà degli anni Cinquanta, vediamo Warhol alterare i titoli in modo che alludano a se stesso, consentendoci di riconoscere la sua mano nella riproduzione.
Gli headline works – dipinti, disegni, stampe, fotografie, sculture e lavori per il cinema e la televisione – rivelano un artista capace di essere ovunque e da nessuna parte al tempo stesso. Warhol arrivava a noi da angolazioni diverse con una varietà di mezzi espressivi e si disperdeva al loro interno. Era costante e onnipresente come le notizie disponibili ventiquattr’ore su ventiquattro. Le idee di Warhol sui quotidiani presero forma quando, lavorando come grafico pubblicitario a New York negli anni Cinquanta, osservava il modo in cui redattori e giornalisti selezionavano e presentavano le notizie.
Le opere con i titoli di giornale dimostrano che l’artista assunse sia il ruolo di redattore che quello di autore, scegliendo articoli già pubblicati che poi raccontava di nuovo usando vari formati. Prendeva i titoli dalle pile di quotidiani e materiali che passava al setaccio ogni giorno, alcuni dei quali finirono nelle sue "capsule del tempo", senza essere utilizzati a fini artistici. Ma quei titoli che Warhol elevò a opere d’arte si uniscono per dare vita a una narrazione ricorsiva, che a volte incrocia la storia della sua vita per creare un unico racconto epico. In questo modo l’artista trasformava materiale predigerito – banale o sensazionale che fosse – in qualcosa di grandioso e personale.
Dalla carta stampata alla TV
La miriade di lavori in cui Warhol riprodusse o fece riferimento ai titoli dei giornali viene in questa mostra presentata come un corpus coerente per la prima volta. Questi headline works (vale a dire le opere basate sugli occhielli o sui titoli degli articoli, pubblicati sulla prima pagina o meno) furono realizzati in una gamma di formati diversi, da bidimensionali a televisivi. Essi registrano in tempo reale i grandi cambiamenti delle tecnologie utilizzate dai mezzi d’informazione dagli anni Cinquanta al 1987, anno della morte dell’artista.
In questo arco di tempo la definizione di "titolo" superò i confini della carta stampata per approdare ai notiziari televisivi, un passaggio oggi illustrato alla perfezione dal programma intitolato "Cnn Headline News". Sottolineando questo cambiamento, le opere di Warhol dimostrano che «il medium è il messaggio», come proclamato da Marshall McLuhan nel fondamentale testo del 1964, Gli strumenti del comunicare. Esse mettono in risalto il messaggio stesso. Dopo tutto, i titoli hanno bisogno di qualcuno che li legga, proprio come le notizie comunicate oralmente hanno bisogno di chi le ascolti.
I racconti creati dai media descrivono nei particolari gli alti e i bassi dei divi creati dai media, e benché Warhol possa sembrare complice di questa frenesia, di fatto spesso la interruppe. In primo luogo, astraendo alcune storie dal loro contesto originale e trasformandole in opere d’arte, mandava in corto circuito la narrazione e ne inventava una alternativa. Inoltre, selezionando ripetutamente eventi simili tra loro, metteva in risalto il fatto che le notizie fossero riciclate, una combinazione di modifiche superficiali e infinita ripetitività di fondo tipica dei prodotti commerciali. In breve, l’artista richiamava l’attenzione sul fatto che le notizie fossero merci e noi consumatori.
In secondo luogo, nelle sue trascrizioni Warhol alterava i titoli originali, tagliandoli, ripetendoli, nascondendoli e riposizionandoli. Tali modifiche danno peso alle sue decisioni in qualità di redattore e autore, ma allo stesso tempo ampliano il raggio d’azione dell’osservatore: quando Warhol taglia una parola, ne cancella alcune o lascia uno spazio vuoto, ci invita a costruire una nostra storia, a diventare autori, o soggetti, delle notizie stesse.
In terzo luogo, per una serie di eventi fatidici, Warhol fu non solo una celebrità ma anche un tragico protagonista delle notizie. Per tutta la sua carriera fu la star di una storia creata dai media. In definitiva, Warhol coinvolge se stesso e l’osservatore in questo racconto, trasformando qualcosa di apparentemente obiettivo (la notizia) in una storia alimentata dai nostri desideri e dalle nostre paure.
I primi disegni con titoli dei giornali, tutti risalenti agli anni dal 1956 al 1962, precedettero o furono realizzati contemporaneamente alle prime tele in cui i titoli erano dipinti a mano. I disegni possono essere divisi in due gruppi: quelli eseguiti a mano libera e quelli probabilmente ingranditi e ricalcati dai documenti originali con l’aiuto di un proiettore. Questi lavori giovanili sono indicativi degli interessi e degli stati d’animo dell’artista in determinati momenti.
1956: Inizia l’avventura
Quello che con molta probabilità fu il primo headline work di Warhol, The Princton Leader del 1956 circa, svela la natura personale della sua arte attraverso l’introduzione furtiva di alcune informazioni biografiche. Warhol basò il disegno su un quotidiano che gli era stato dato da Lisanby, originario di Princeton, nel Kentucky. Utilizzando una penna a sfera, trascrisse su carta gli articoli della prima pagina dell’edizione del 23 agosto 1956 del «Princeton Leader» (l’unica testata di provincia usata da Warhol per questo genere di lavori). Tuttavia, sotto il titolo "Abitante del luogo completa il tirocinio da idraulico e tubista", inserì il nome di Lisanby al posto di quello del soggetto reale, Norval L. Oliver. In realtà, Lisanby lavorava come scenografo e direttore artistico per la Cbs-tv di New York. Il riferimento a Lisanby, un professionista affermato appartenente a una famiglia agiata, che probabilmente non aveva mai tenuto in mano una chiave da idraulico, rivela la maliziosa ironia di Warhol, nonché la sua profonda consapevolezza della stratificazione della società dell’epoca, inclusa la sua posizione in qualità di figlio di genitori poveri e immigrati e la sua ambizione di migliorarla e diventare una star.
L’articolo citava la lettera inviata all’apprendista idraulico dall’allora segretario del Lavoro americano, James P. Mitchell, che elogiandolo per essere diventato un operaio qualificato, gli ricordava «il dovere di trasmettere ad altri l’importanza della formazione professionale non soltanto per l’individuo, ma anche per la comunità a cui appartiene e per l’intera Nazione». Mitchell, un democratico che svolse il suo mandato sotto il presidente repubblicano, Dwight D. Eisenhower, fu definito «la coscienza sociale del Partito repubblicano». È probabile che la sua lettera di stima per coloro che lavoravano come operai qualificati avesse suscitato l’interesse di Warhol (figlio di un colletto blu d’origine cecoslovacca), che proprio allora migliorava la sua posizione sociale da grafico pubblicitario di successo ad artista. Parallelamente alla questione politica e di classe, nell’opera si individua un altro sottotesto più personale. Per un certo periodo negli anni Cinquanta, Lisanby fu l’oggetto del desiderio di Warhol, ma dopo un viaggio in giro per il mondo che i due compirono insieme nell’estate del 1956, l’artista tornò a casa con il cuore spezzato, senza aver realizzato i suoi progetti romantici. Il desiderio per Lisanby era diretto, ma l’interesse per il quotidiano introduceva un terzo elemento nel rapporto. La trasposizione del «Princeton Leader» rappresentava il "desiderio mimetico" di Warhol, secondo l’espressione coniata da René Girard per definire il rapporto triangolare tra soggetto, modello e oggetto del desiderio descritto dai grandi romanzieri: Warhol vuole la fama e il successo che attribuisce a Lisanby, vuole apparire sui giornali.
Nel momento in cui dà a Warhol il numero del «Princeton Leader», un oggetto su cui l’artista riverserà le sue attenzioni, Lisanby assume il ruolo del modello. Non è più l’oggetto di un desiderio lineare diretto, ma diventa (nella configurazione triangolare del desiderio) il mediatore dell’interesse di Warhol.
Come finire in prima pagina
I titoli dei giornali furono uno dei soggetti più importanti di Warhol dal periodo fine anni Cinquanta e inizio Sessanta, che segnò il suo passaggio dalla grafica all’arte, fino al 1968, quando venne ferito gravemente da alcuni colpi di pistola, e ancora fino al 1987, anno della sua morte. Essi incarnavano l’oggetto del desiderio (la fama come artista) e delle paure di Warhol: l’ambiente eccitante ma precario da lui creato con la Silver Factory degli anni Sessanta talvolta conquistava un suo spazio sui tabloid.
Le immagini e i titoli dei tabloid furono un tema ricorrente nella vita di Warhol. Era nato il 6 agosto 1928, nell’epoca d’oro dei giornali scandalistici, otto mesi dopo che sulla prima pagina dell’edizione straordinaria del «New York Daily News» (13 gennaio 1928) era apparsa la fotografia che Tom Howard aveva scattato di nascosto a Ruth Snyder durante la sua esecuzione, sulla sedia elettrica nel carcere di Sing Sing. L’immagine era sovrastata dal titolo composto di una sola parola che diceva: «Morta!».
Warhol iniziò la propria serie sulla sedia elettrica trentacinque anni dopo, nel 1963, basandosi su un’immagine di «World Wide Photo» del 13 gennaio 1953, raffigurante la sedia elettrica di Sing Sing su cui il 19 giugno dello stesso anno sarebbero stati uccisi Julius ed Ethel Rosenberg, condannati per spionaggio.
Il nome di Warhol apparve per la prima volta su un giornale nel 1946, quando, giovane studente d’arte, vinse un premio di disegno al Carnegie Institute of Technology (oggi Carnegie Mellon). La notizia fu pubblicata su due quotidiani di Pittsburgh; il titolo del «Pittsburgh Press» recitava: «Artista piazzista ritrae i clienti e vince un premio: una serie di disegni mostra di tutto, dal ricco ozioso al povero in difficoltà». Già a diciotto anni l’artista aveva capito come provocare la stampa con il proprio lavoro e ottenere la massima copertura. Era «pronto per la stampa».
Dopo aver usato la testata di un giornale di provincia come il «Princeton Leader» nel disegno eseguito intorno al 1956, Warhol passò, con poche eccezioni, ai tabloid newyorkesi e ai titoli sensazionalistici. Non aveva molto interesse per giornali con una reputazione più seria quali il «New York Times». Al contrario, era chiaramente attratto dal linguaggio melodrammatico e dalle immagini di tabloid come il «New York Daily News» e il «New York Post», oltre che dal «National Enquirer» (che nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta vide crescere costantemente il numero dei lettori). Scegliere i propri soggetti dai tabloid significava ribadire con coerenza che la società è composta da persone nobili e comuni, da gay ed eterosessuali, da bianchi e da neri; questo tipo di giornali, infatti, rappresenta una sorta di schermo su cui gli scandali ricevono lo stesso trattamento degli eventi naturali (come la nascita di un bambino in una famiglia reale "celebre") o delle tragedie che coinvolgono la gente comune. Volenti o nolenti, siamo tutti attratti dai tabloid e tuttavia, come Narciso, spesso vediamo soltanto un Altro, consentendo alle storie di catturare la nostra attenzione senza però riconoscere noi stessi. Ciò è vero oggi come lo era all’epoca in cui Warhol iniziò a creare arte usando testate e immagini dei giornali popolari.
Gli headline works di Warhol, inoltre, sottolineano un paradosso dei tabloid. Da una parte, il loro contenuto scandalistico fa leva sui nostri istinti più bassi, colpendoci in modo più viscerale di quanto non facciano le testate tradizionalmente serie. Dall’altra, il cosiddetto giornalismo scandalistico inficia la nostra considerazione di questo tipo di stampa, spingendoci a diffidarne, ritenendola esagerata e inattendibile. Questo è un’altro dei motivi per cui gli headlines di Warhol ci "prendono": la possibilità che le storie siano vere a metà o completamente false ci obbliga a cercare di capire quali siano vere, quali inventate e quali siano una via di mezzo, tanto nelle opere d’arte quanto nei tabloid su cui queste si basano. Thomas Crow ha insistito su questo concetto sostenendo che «Warhol si atteneva, benché in modo piuttosto tenue, a una tradizione quasi dimenticata di racconto della verità della cultura commerciale americana». Oppure possiamo accettare la finzione e decidere di imbarcarci in un mitico viaggio nei media per il piacere della pura evasione. Ai lettori della stampa popolare di oggi piacciono le mezze verità degli articoli e le foto ritoccate con Photoshop. Warhol dimostrò un interesse simile per il titolo e la foto di dubbia autenticità che occupavano la copertina del «National Enquirer» del 22 settembre 1963.
Il tabloid, che bellezza!
La conoscenza pratica dei mezzi d’informazione consentiva a Warhol di capire che talvolta i tabloid si prendono gioco di se stessi. Un altro numero del «National Enquirer» (22-28 luglio 1962), anche questo conservato da Warhol, mostra Brigitte Bardot che legge un giornale e una nuvoletta da fumetto in cui è scritto: «Bugie! Bugie! Bugie!».
La chiara ammirazione per questo titolo può essere collegata al modo in cui il tabloid sembra accusare se stesso, quasi ammettendo di pubblicare falsità. Quando scorriamo gli articoli alla ricerca della verità, cogliamo la sfida che sta nel riconoscere la vera celebrità, la vera catastrofe, la vera storia. Più intimi sono i particolari, più vicini ci sentiamo al soggetto (o all’oggetto del desiderio). È l’incrociarsi di realtà e finzione che Warhol deve aver trovato avvincente nei titoli dei giornali. Incentrando l’interesse sul genere dei tabloid, l’artista metteva chiaramente in discussione la pretesa di rappresentare la verità, vuoi nel contenuto dei media, vuoi nell’arte.
Grazie all’esperienza come grafico pubblicitario, negli anni Cinquanta, Warhol affinò il suo senso estetico e sviluppò una grande abilità nell’uso delle parole e delle immagini per attirare l’attenzione del lettore. Nel periodo in cui compì il passaggio all’arte, fu per lui naturale trovare ispirazione nella pagina stampata di un giornale. Spesso Warhol tagliava drasticamente o riconfigurava le immagini delle sue fonti, come nel caso dei dipinti simili a strisce di fumetti, tra cui «Saturday’s Popeye», e quelli basati sulla pubblicità. A differenza della prima modalità (abbandonata nel 1961) e della seconda (abbandonata negli anni Sessanta e poi ripresa negli anni Ottanta), l’uso dei titoli di giornale fu una costante di tutta la sua carriera. Negli headline works iniziò a inserire e ritagliare non solo le immagini ma anche le parole stampate, strappandole al loro contesto originale, pur continuando a incentrare i suoi montaggi apparentemente casuali su elementi che catturavano lo sguardo.
Gli errori d’ortografia segnarono tutta la carriera di Warhol, giacché persino il suo nome d’arte nacque per questo motivo: nel 1949 la rivista «Glamour» omise l’ultima lettera del suo cognome – Warhola – citandolo come autore delle illustrazioni dell’articolo intitolato "Il successo è un lavoro a New York". È possibile, dunque, che, dietro gli errori di Warhol si nasconda un certo grado di autoreferenzialità. Quattro dipinti realizzati tra il 1961 e il 1962 – A Boy for Meg , A Boy for Meg , Daily News e 129 Die in Jet (elencati in ordine cronologico) – rappresentavano le notizie flash con cui Warhol annunciava l’inizio della sua carriera d’artista. La scelta dei titoli dei quotidiani – formulazioni grafiche e incisive – si prestava in maniera eccellente ad attirare alla prima occhiata l’attenzione dell’osservatore. Le due versioni di A Boy for Meg sono i primi dipinti in cui Warhol utilizzò la prima pagina di un giornale come una composizione ready-made. Quando, nel 1986, Donna De Salvo gli chiese perché avesse deciso di includere la pagina intera, l’artista rispose: «Oh, in realtà volevo fare tutto il giornale, quindi quella era soltanto la copertina».