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 2012  giugno 10 Domenica calendario

LA LOGICA DI SACCHERI

All’inizio del secolo scorso un articolo di Giovanni Vailati richiamava l’attenzione degli studiosi su un’«opera dimenticata» di Gerolamo Saccheri, la Logica demonstrativa. Era di pochi anni la "riscoperta" di un’altra opera dimenticata di Saccheri, l’Euclides ab omni naevo vindicatus (1733), il libro al quale è soprattutto legata la sua fama (postuma), secondo la vulgata che ha fatto di Saccheri un precursore delle geometrie non euclidee. Lo scorso anno l’Euclides è stato pubblicato in traduzione italiana (e ristampa anastatica) a cura di Vincenzo de Risi per le Edizioni della Normale (si veda Sole-Domenica, ottobre 2011). Nella stessa collana, e con le stesse modalità di pubblicazione, appare ora la Logica dimostrativa, a cura di Massimo Mugnai e Massimo Girondino. «Forse qualcuno resterà perplesso dal titolo dato a quest’opera», scrive Saccheri rivolgendosi «al benevolo lettore».
In verità, continua Saccheri, «quando dico "logica dimostrativa" vorrei che tu pensassi alla geometria, a quel severo metodo di dimostrare che risparmia a mala pena i primi principi, non ammette nulla che non sia chiaro, evidente, indubitato». Allo scopo, Saccheri presenta la sua Logica secondo il modello assiomatico che Euclide ha insegnato nei suoi Elementi. Tuttavia, come mostra Mugnai nell’introduzione che fa da preziosa guida alla lettura, l’idea di esporre la logica in forma assiomatica era già stata adottata nelle sue lezioni di logica da Honoré Fabri, un gesuita come Saccheri che, per le sue opinioni in filosofia e teologia, andò incontro a non poche difficoltà con le autorità ecclesiastiche. Un suo libro fu messo all’indice e, per aver preso posizione in favore delle tesi galileiane, Fabri conobbe addirittura le carceri vaticane, da cui fu tratto grazie all’intervento del Granduca di Toscana. Le sue lezioni di logica, pubblicate nel 1646, costituirono una fonte autorevole, se non la fonte principale, della Logica di Saccheri. E tuttavia, prudentemente, il nome di Fabri non viene mai citato nella Logica. Un’opera che, dal momento della sua pubblicazione, ha avuto un curioso destino, prima ancora di cadere nell’oblio per secoli. Nella prima edizione del 1697 l’autore appare essere Giovanni Francesco Caselette, conte di Graviere, un allievo di Saccheri, come doveva esserlo anche Marco Antonio Grondana, al quale è attribuita un’edizione non datata. Solo a partire da un’edizione del 1701 Saccheri si attribuì apertamente la paternità dell’opera. Come spiegare questo singolare atteggiamento? Secondo Mugnai, l’aver basato la propria Logica sulle lezioni di Fabri potrebbe aver generato in Saccheri «qualche timore nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche».
Comunque sia, anche nell’Euclides Saccheri rivendicava di essere in possesso fin dalla giovinezza e di aver presentato nella sua Logica un peculiare meccanismo dimostrativo, la consequentia mirabilis, che consente di dimostrare la verità di una proposizione a partire dalla sua negazione. «Procederò nel modo seguente», spiega Saccheri. «Assumerò il contraddittorio delle proposizioni da dimostrare e, a partire da esso, dedurrò la tesi in maniera ostensiva e diretta». Nella formulazione nei termini oggi più familiari della logica proposizionale, questa forma di deduzione, cui è legato il nome di Saccheri, corrisponde a una formula che si traduce in: «Se (se non p, allora p), allora p». Come osserva Mugnai, per rendersi conto che si tratta di una tautologia è sufficiente applicare il metodo delle «tavole di verità», ossia assegnare in successione i valori «vero» e «falso» alla componente p e calcolare il valore di verità della proposizione composta, tenendo conto del comportamento dei connettivi logici «non» e «se... allora».
Naturalmente, osserva ancora Mugnai, sia questa formulazione sia la sua verifica in termini di tavole di verità presuppongono lo sviluppo della logica che ha avuto inizio nella seconda metà dell’Ottocento. I testi precedenti di logica, come questo di Saccheri, «soffrono tutti di difficoltà derivanti dal fatto di essere scritti in linguaggi naturali», con le ambiguità semantiche e sintattiche a essi correlate. Di modo che, anche per la consequentia mirabilis, non è affatto agevole distinguerla dalla «distinzione di casi», ossia la formulazione «se p segue sia da p che da non p, allora p vale in ogni caso», oppure dalla riduzione all’assurdo («se da non p segue un assurdo, allora vale p»). Nella Logica dimostrativa Saccheri non vanta alcuna paternità nella scoperta, e riconosce esplicitamente che quella procedura dimostrativa si trova utilizzata nell’antichità da Euclide e da Teodosio e, in tempi più recenti, da Cardano e Clavio. Con l’enfasi che caratterizza molti dei suoi testi, nel De proportionibus Cardano si vanta infatti di aver provato un risultato geometrico «con una dimostrazione diretta, non con una che porta all’assurdo», in un modo «che non è mai stato fatto da alcuno, anzi sembra semplicemente impossibile. Ed è la cosa degna di maggior meraviglia che sia stata scoperta dalla fondazione del mondo, dimostrare cioè qualcosa dalla sua negazione». Insomma, è «come se qualcuno dimostrasse che Socrate è bianco perché è nero, e non si potesse dimostrarlo in altro modo». È la natura diretta di quel procedimento dimostrativo a suscitare la meraviglia di Cardano, ciò che lo rende mirabilis ai suoi occhi e agli occhi di Saccheri. Nella Logica dimostrativa la consequentia mirabilis trova applicazione essenzialmente nelle situazioni di autoriferimento, come afferma di fare Saccheri quando si accinge a dimostrare che alcuni modi del sillogismo non sono validi. Ma in realtà, come bene spiega Mugnai, più che alla consequentia mirabilis Saccheri ricorre alla «distinzione di casi».
Nondimeno, conclude Mugnai, è l’ideale di «giustificare la logica sulla base della sola logica», che si cela dietro il ricorso al quel procedimento dimostrativo, a costituire il principale motivo di interesse di quest’opera, a lungo immeritatamente dimenticata.