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 2012  giugno 10 Domenica calendario

«Signor presidente, sia buono: mi conceda la pena di morte» - Signor presi­dente della Repubblica, un cittadino di 56 anni, residen­te in un edificio di proprietà dello Sta­to che lei rappresen­ta, al numero 10 di via Maiano, a Spoleto, le chiede d’essere aiutato a morire

«Signor presidente, sia buono: mi conceda la pena di morte» - Signor presi­dente della Repubblica, un cittadino di 56 anni, residen­te in un edificio di proprietà dello Sta­to che lei rappresen­ta, al numero 10 di via Maiano, a Spoleto, le chiede d’essere aiutato a morire. Se lei ha un cuore, do­vrebbe esaudirne l’insano desiderio. Quest’uomo,in buona salute,determina­to e generoso, è uno scrittore, ha già pub­blicato tre libri - l’ultimo, Zanna Blu (Ga­brielli editori), con la prefazione di Mar­gherita Hack, uscito in questi giorni - ma per sopravvivere è costretto a lavorare in una biblioteca a 26 euro al mese. La casa in cui abita misura tre passi e mezzo in lun­ghezza e tre passi in larghezza, bagno compreso, e ha il letto inchiodato al pavi­mento. Dentro ci sono solo uno sgabello, una lampadina, un tavolino, un paio di sti­petti attaccati al muro, una mensola con sopra un piccolo televisore. Si entra nel monolocale da un cancello. Dietro il cancello, un blindato che viene aperto al mattino e chiuso la sera. Al cen­tro del blindato, uno spioncino, perché Carmelo Musumeci, alias Zanna Blu, ori­ginario di Aci Sant’Antonio (Catania), è detenuto per associazione a delinquere di tipo mafioso, in regime AS1 (Alta sicu­rezza), va guardato a vista e non può stare con altri reclusi: «Divido la cella solo col mio cuore».Nel 1995 gli è stato inflitto l’er­gastolo quale mandante dell’omicidio di Alessio Gozzani, un pregiudicato di Mas­sa Carrara assassinato nel 1991, che l’an­no prima, secondo la Criminalpol, aveva partecipato a Roma all’assassinio di Enri­co De Pedis, il boss della Magliana oggi se­polto nella cripta della basilica di San­t’Apollinare. Il pentito Angelo Siino ha scagionato Musumeci, attribuendo il de­litto Gozzani, del quale non s’è mai sco­perto l’esecutore materiale, a Cosa no­stra, ma le carte di quella confessione si so­no smarrite nei meandri del Palazzo di giustizia di Palermo. Musumeci non si di­chiara né innocente né colpevole: sempli­cemente s’accontenta d’essere giudicato un uomo diverso. «Sono stato punito per reati che non ho commesso e perdonato per reati che ho commesso». Del resto per quattro volte l’hanno condannato al car­cere a vita e per quattro vol­te l’hanno poi assolto. L’inquilino della cella numero 154 è «un uomo ombra». Sconta un tipo di ergastolo speciale, quello ostativo, che gli nega per­messi­premio o altri bene­fici. Per questo supplica Giorgio Napolitano di con­cedergli la pena di morte. «Un ergastolano ostativo è cattivo e colpevole per sempre. Per uscire ha un’unica possibilità: met­tere in cella un altro al posto suo. Se parla, lo liberano. Sennò sta dentro fino al mo­mento del decesso». Nel suo caso, per la verità, c’è stata un’eccezione, altrimenti non avrebbe potuto scrivere Undici ore d’amore di un uomo ombra , il suo secon­do libro, con prefazione di Barbara Alber­ti, che narra dell’unico giorno di felicità da quando, 21 anni fa, ha smesso di veder sorgere il sole all’orizzonte, «perché vivo con le sbarre alla finestra e con un muro davanti agli occhi». L’11 maggio 2011 il giudice di sorveglianza gli ha concesso un permesso straordinario per presentar­si p­resso la facoltà di giurisprudenza di Pe­rugia, dove s’è laureato in legge con una tesi dal titolo La «pena di morte viva»: er­gastolo ostativo e profili di costituzionali­tà , discussa col professor Carlo Fiorio, do­cente di procedura penale. Quel giorno ad attenderlo all’uscita del­la prigione, per le uniche 11 ore di libertà della sua vita recente, e soprattutto futura, c’era Nadia Bizzotto,dall’età di 21 anni co­st­retta in carrozzella per un incidente stra­dale, responsabile della casa d’accoglien­za della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi a Bevagna (Perugia). È lì che s’è tenuto il pranzo di laurea. Musumeci aveva accanto la com­pagna Sandra, 58 anni, soprannominata Lupa Bella,e i figli Barbara,30 anni,laurea­ta in ingegneria chimica con 110 e lode, che lavora a Modena, e Mirko, 28, che gli ha dato due nipoti, Lorenzo, 6, e Michael, 4. Porta i loro nomi tatuati sulle braccia. Nadia Bizzotto è una volontaria origina­ria di Bassano del Grappa che da anni, tut­ti i mercoledì, lo va a trova­re in carcere. Musumeci la chiama «il mio diavolo cu­stode » e in cella conserva il rosario che la ragazza strin­geva in ospedale dopo lo schianto.«Ho anche un’im­magine della tomba di don Oreste e poi, le sembrerà strano, ma nel mio angolo della felicità, dove tengo le foto dei figli e dei nipotini e le foglie e i fiori secchi che mi mandano le suore o qualche mio amico che vi­ve nei boschi, c’è anche lei, Lorenzetto, perché la mia figlia del cuore, Mita, mi ha mandato, non so neppure dove l’abbia presa, una sua foto sorridente accanto a don Benzi,con scritto sul retro “Don Ore­ste con Stefano Lorenzetto del Giornale ”. Anche se mi hanno detto che la sua è una testata forcaiola, m’ispirano le persone che sorridono». Sono imperscrutabili i disegni che si compongono in questi 10 metri quadrati dimenticati dal sole ma non dalla luce. Mi­ta è la figlia di un operatore penitenziario della casa circondariale di Perugia, mor­to tre anni fa per un tumore al pancreas. S’è imbattuta in Carmelo visitando il suo sito su Internet dedicato alla condizione carceraria ed è come se avesse trovato un secondo padre. Gli ha scritto. Ora gli fa vi­sita ogni 15 giorni insieme col marito. La sua compagna le vuole bene da 30 anni, ma non può aspettare il suo ritor­no. Che cos’è che vi tiene uniti? «Lascio rispondere Zanna Blu: “Lupa Bel­la era una lupa meravigliosa, dolce e buo­na. Anche lei, come Zanna Blu, aveva sof­ferto. Come lui era stata abbandonata da piccola e fino a quel momento era vissuta da sola. Una notte di luna piena giuraro­no entrambi che non si sarebbero mai la­sciati, né con il cuore, né con la mente. Che i loro cuccioli mai e poi mai sarebbe­ro stati abbandonati e che non avrebbero mai conosciuto altri genitori che loro”». Lei è stato abbandonato da piccolo? «Mio padre era bracciante a giornata, emi­grò in Francia per fame. Mia madre face­va avanti e indietro. Nella mia famiglia l’amore era un lusso.Muratore a 9 anni,a 10 mi hanno messo in collegio, ma sono scappato. Da nonna Lella ho imparato ciò che altri avevano insegnato a lei: a rubare per sopravvivere. Mi riempì di botte in pre­senza del bottegaio che m’aveva pescato a sgraffignare. Poi a casa me ne diede al­trettante perché m’ero fatto scoprire». A che età commise il suo primo reato? «Sono nato colpevole. Non ricordo l’età, ma l’episodio sì:il furto di una pistola gio­cattolo esposta su una bancarella in una fiera. Assomigliava a quella vera che tene­va nascosta mio zio. Ho imparato a ruba­re prim’ancora di scrivere, forse di parla­re. Ma c’è solo un reato che mi ha fatto sen­tire veramente colpevole. Avrò avuto 10 anni. Scippai la borsa a una vecchietta. Dentro c’erano 1.000 lire. Non so perché, me ne vergognai a morte. Lasciai la banco­nota in elemosina a un povero davanti a una chiesa e giurai a me stesso che da grande sarei andato a prendere i soldi so­lo dove ce n’erano molti. E così feci. Appe­na quindicenne, già rapinavo banche». In quante prigioni è stato? «Tante. Troppe, per elencarle tutte. La pri­ma fu Marassi a Genova nel 1972. Sono stato anche in tre carceri francesi. Questo di Spoleto è il meno peggio». Mi racconti la sua giornata. «Mi sveglio presto. Alle 8.30 vado a lavora­re in biblioteca. A mezzogiorno ritorno in cella.Pasto frugale.Leggo i giornali.A vol­te vado all’ora d’aria, ma più spesso riman­go in cella. Aspetto che passi la guardia con la posta. Rispondo alle numerose let­tere che ricevo. La sera mi cucino qualco­sa. Poi inizio a fare su e giù in cella per dige­rire. Tre passi avanti e tre indietro. Quan­do sono abbastanza stanco, mi sdraio nel­la branda. Leggo fino a tardi. Poi mi addor­mento perché non posso fare altro». A parte la privazione della libertà, che cosa la fa più soffrire nella sua condi­zione di carcerato? «La mancanza di futuro». Quanti sono i detenuti italiani con­dannati al carcere ostativo? «Potrebbero essere un migliaio. È diffici­le quantificare, perché decide di volta in volta il magistrato di sorveglianza». Non c’è nessuna speranza che la sua pena venga condonata dal capo dello Stato? «Non credo che un presi­dente della Repubblica sa­no di mente possa dare la grazia a un ergastolano condannato fra l’altro per mafia. Io voglio uscire dal carcere perché me lo meri­to e non per un colpo di cu­lo o perché faccio la spia: non sono così criminale da usare la giustizia per procu­rarmi una scorciatoia». Com’è possibile che gli assassini di Aldo Moro e i due di Lud­wig siano già liberi e lei no? «La legge non è uguale per tutti». È favorevole alla pena di morte? «Credo che sia meglio morire una volta so­la che tutti i giorni. Ho scritto a Napolitano affinché si dimostri più umano e mi tramu­ti l’ergastolo in un’esecuzione capitale». Alla gente spaventata, che rinchiude­rebbe chi delinque e butterebbe via la chiave, che cosa sente di poter dire? «Se vuoi punire un criminale e dargli la più severa delle pene, perdonalo. Solo il per­dono ti fa sentire veramente colpevole e ti tira fuori il senso di colpa per il male che hai commesso. Se invece le persone perbe­ne si dimostrano più cattive di te, a tal pun­to da infliggerti un castigo senza fine, persi­no il peggior criminale si sentirà innocen­te e migliore dei suoi governanti». Perché ha deciso di laurearsi in giuri­sprudenza? «Per lottare meglio contro l’Assassino dei Sogni, come io chiamo il carcere, che è il più grande criminale che il mondo abbia mai partorito. Voglio costringerlo a rispet­tare le sue stessi leggi. E anche difendere i miei diritti e quelli dei miei compagni». Per quanti anni ha studiato? «Sono entrato in galera con la quinta ele­mentare e ho preso la licenza media. Poi, quando ero sottoposto allo stato di tortu­ra del regime 41 bis nell’isola del diavolo dell’Asinara, ho iniziato a studiare da au­todidatta, ma non mi davano i libri. Allora Giuliano, un maestro in pensione, strap­pava le pagine dei testi e me li mandava per lettera, pochi fogli alla volta. Mi ero iscritto al liceo scientifico, come mia fi­glia, ma c’era troppa matematica e io non sapevo fare neppure una divisione. So­prattutto non riuscivo a comprendere per­ché la moltiplicazione di due numeri ne­gativi diventasse un numero positivo. So­no passato alle magistrali: peggio che an­dare di notte, ho trovato il latino e io non sapevo neppure la grammatica italiana». Quando ha appreso che l’avrebbero lasciata uscire di prigione per andare a laurearsi? «Alle 17 del giorno precedente, il più lun­go di tutta la mia vita. Avevo paura che ci ripensassero». E durante la notte ha temuto di mori­re, come Mosè, che poté contemplare la Terra Promessa dall’altodel Monte Nebo ma non entrarci, è così? «Sì. Dovevo decidere se rientrare in carce­re, sapendo che non avrei avuto mai più un’altra occasione simile: il tribunale di sorveglianza concede il permesso di ne­cessità una sola volta e per un evento uni­co e irripetibile. Oppure potevo scappare all’estero e godermi la libertà fino a quan­do non mi avessero preso. Ho pensato an­che a una terza possibilità: impiccarmi a un albero prima di ritornare dentro, mo­rendo così da uomo libero. Alla fine ho scelto di rientrare per fare un dispetto al­l’Assassino dei Sogni e dimostrare che so­no migliore di lui». Quando conobbe don Oreste Benzi? «Nel 2007 e da allora condivido il progetto “Oltre le sbarre” della sua comunità. Era venuto nel carcere di Spoleto, pensavo che fosse il solito prete che sta solo dalla parte dei “buoni”.In quel periodo stavo or­ganizzando il primo sciopero della fame collettivo in tutte le carceri d’Italia, per l’abolizione dell’ergastolo. Gli chiesi se avesse il coraggio di schierarsi dalla parte dei mafiosi, dei criminali, dei più cattivi di tutti, appoggiando il nostro sciopero per far cancellare l’ignominia del “fine pena mai”.Lui mi sorrise e mi rispose: “Sì!”.Poi aggiunse: “L’uomo non è il suo errore”». E se un giorno Nadia Bizzotto smettes­se di farle visita? «Non può farlo. Don Ore­ste me l’ha lasciata come angelo custode. Sono le donne e gli uomini che tra­discono. Gli angeli come lei e i diavoli come me non tradiscono mai». Ha mai pensato di eva­dere? «Non solo lo penso, ma lo faccio tutte le volte che mi addormento. L’ho sogna­to anche questa notte». Don Benzi una volta mi disse: «Per rimanere in piedi, bisogna mettersi in ginocchio». Che cosa la tiene in piedi? «Anche se avessi ucciso, le assicuro che non è mai morto un innocente per colpa mia. Quando uno nasce in una famiglia come quella che ho avuto io, non ha scel­ta: o sta con i buoni o sta con i cattivi. Io so­no stato con i cattivi perché erano gli unici che mi volevano bene. Non cerco né pietà né compassione, pretendo la pena di mor­te o la fine della mia pena. Ecco che cosa mi tiene in piedi. Ora basta. Dottor Loren­zetto, cazzo! Ma si rende conto che mi ha fatto 51 domande? Neppure un pubblico ministero mi ha mai interrogato così». Biografia aggiornata: LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: La versione di Tosi (Marsilio). LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso, Visti da lontano e La versione di Tosi. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.