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 2012  giugno 10 Domenica calendario

Quando il pop salì al trono - Non solo Elisabetta. Anche Sua Maestà la musica ha il suo Giubileo di Diamante

Quando il pop salì al trono - Non solo Elisabetta. Anche Sua Maestà la musica ha il suo Giubileo di Diamante. Sessant’anni di classifiche. Il 14 novembre del 1952 il giornale pop «New Musical Express» pubblica la madre di tutte le hit parade britanniche, mutuando l’idea dal magazine americano «Billboard». Dodici titoli messi in fila sulla base delle vendite nei negozi. I dischi sono oggetti fragili di gommalacca e Bing Crosby si aggiudica il primo posto con «Isle of the Innisfree». Nel gruppo ci sono anche Vera Lynn e il tenore italiano Mario Lanza. È un mondo povero, che cerca di ripartire e riempie i testi di buoni sentimenti. Roba da gente di mezza età. Anche se in quell’era di austerity si cresce in fretta e la mezza età comincia il giorno in cui si lascia la scuola. Eppure sono proprio i più giovani a guidare il cambiamento. Da soli e con l’aiuto interessato dei colossi della pubblicità, che intuiscono nello smottamento ormonale dei minorenni una vera e propria miniera d’oro. Travestita da rivoluzione, esplode l’era del rock’n’roll e James Dean è l’incarnazione fisica e preparata a tavolino delle potenzialità del nuovo che avanza. Nel 1956 a guidare le classifiche c’è un ragazzo di 21 anni che si chiama Elvis Presley. Canta «Blue Suede Shoes». È una mania. Secondo il critico musicale Roy Connolly la musica abbatte le barriere della razza. I cantanti neri hanno un’energia contagiosa che spinge i ragazzi a occuparsi di quello che suonano e non della loro pigmentazione. «Un salto quasi impensabile per i loro genitori». L’eguaglianza è una chimera, ma il sasso comincia a rotolare portandosi dietro la valanga. Il rock è fatto di chitarre elettriche e i soldi per comprarle non ci sono, ma ogni teenager del Regno ha in casa una chitarra acustica. Compresi John Lennon e Paul McCartney. La parola sesso comincia a insinuarsi nei testi. È proprio Elvis a sdoganare il tema cantando «Don’t Baby Don’t Say Don’t», un invito esplicito a lasciarsi andare. Nel 1961 The Shirelles portano con forza il dibattito sul tavolo con «Will You Love Me Tomorrow?». Se mi concedo, domani mi rispetti ancora? Bella domanda, che i tempi si incaricano di superare. I costumi sono cambiati, sono i favolosi Anni 60. I Beatles sono la bandiera dell’orgoglio britannico, ma ci sono anche gli Who o i Rolling Stones. È il trionfo dei figli dell’Education Act del 1944, la norma con cui il governo decide di aprire scuole d’arte, Grammar School e università in ogni angolo del Paese. Chi suona adesso sa. Musicisti preparati, creativi, ribelli e costruttivi. Nel calderone finisce tutto. La trasgressione, la droga, la sessualità esplicita, il nichilismo, l’autolesionismo, le poesie di Shelley e Keats, ma anche la politica, che all’improvviso assume un ruolo centrale con «We Shall Overcome». Bob Dylan regala al pianeta «Blowin’ in the Wind». Sono gli anni del Vietnam e della marijuana, mentre Joni Mitchell apre la strada al nascente movimento ecologista e, nel 1969, Jane Birkin simula il primo orgasmo discografico in «Je t’aime... moi non plus». La Bbc censura, la canzone arriva lo stesso in vetta alle classifiche. È il momento migliore? Forse. Il produttore dei Beatles, George Martin, racconta che dagli Anni 70 si aspettava di più. «Proprio allora la musica ha cominciato a dividere anziché a unire». Tocca ai punk, ai Sex Pistols, ai Clash. E di fianco a loro agli Abba e ai Bee Gees di «Saturday Night Fever». È l’invasione della disco music. Gloria Gaynor canta quello che diventerà - ed è tuttora - l’inno delle femministe: «I Will Survive». «Non c’è serata di karaoke in un pub inglese in cui le ragazze si astengano da cantarla», scrive Connolly sul «Daily Mail». Musica e film cominciano a fondersi, è il momento dei videoclip e l’immaginario collettivo cambia. Se prima ciascuno era libero di costruirsi un proprio universo dietro le note, adesso sono i filmati di Mtv e di YouTube ad esplicitarlo e a imporlo per tutti. Gli Anni 80 sono quelli leggeri dei Duran Duran e degli Wham, nei 90 comandano Oasis e Spice Girls. E il nuovo millennio consacra i talent e la tv pop trash, una chiesa guidata in Inghilterra da Simon Cowell. Il talento di Amy Winehouse, Adele o James Blunt è più forte dell’omologazione da Grande Fratello, ma la «cheap music», come la chiamano qui, dilaga. Rapida, facile, intercambiabile. In fondo Cowell si è sempre sentito un uomo d’azione più che di pensiero. Come certi eroi del cinema americano che saltano, corrono e amano senza risparmiarsi. Affinché il grande frullatore dell’esistenza non li costringa mai a cercare di capire dove sono davvero.