Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  giugno 11 Lunedì calendario

C’ è

ancora in vita qualcuno che, quando nel suo Bar Sport si imbatte in chi ricorda il rimboccarsi di maniche di Valentino Mazzola per le rimonte del Grande Torino, precisa che sul piano dello stimolo, del carisma, del doping simbolico quel gesto era l’imitazione del gesto magico di Mario Ardissone, carrettiere, quando era ora di trascinare le bianche casacche della Pro Vercelli?

Speriamo di sì, temiamo di no, gli anni sono anni, e la Pro Vercelli di Ara, dei Milano primo e secondo e dei Rampini anch’essi due e di Bertinetti, poi la Vercelli appunto di Ardissone, vinceva scudetti dopo scudetti in quella che ora appare preistoria.

Con le bianche casacche perché all’origine si trattava di camicie bianche, quelle che stanno negli armadi di tutti, anche e specialmente se legati alla terra (allagata: la risaia) tutta la settimana di lavoro e al rito della camicia pulita per la messa della domenica.

Le bianche casacche che davano calciatori alla Nazionale, che si intitolavano addirittura due cicli tricolori: scudetti nel 1908,1909, 1911, 1912 e 1913, in mezzo soltanto un pochino di Inter, e poi nel 1921 e 1922 (anno della Novese vittoriosa prima nel campionato federale disertato dalle grandi), gli scudetti appunto di Ardissone.

E poi ci sarebbe stato un altro della Pro Vercelli a instaurare un termine di paragone cosmico, irraggiungibile. Uno della Pro Vercelli e secondo lui stesso (ce lo precisò personalmente, accendendosi) anche di Vercelli, dove era nato al calcio e cresciuto alla gloria. Si chiamava Silvio Piola, per Gianni Brera era un lombardo perché formalmente nato a Robbio Lomellina, lì a due passi in Lombardia e posto sempre di risaie, ma per la mitica ed anche la mistica del calcio di una volta vercellese, e dei massimi.

Piola prima e durante e dopo la guerra per lunghi anni fu soprattutto della Lazio, e anche della Juventus e del Torino e del Novara, ma sempre si proclamò vercellese. E quando nel 1996 morì e subito Novara gli intitolò lo stadio, dove aveva giocato le ultime partite arrivando anche ad essere convocato in Nazionale a quarant’anni perché tentasse il miracolo contro l’allora imbattibile Inghilterra (una volta da lui pareggiata con un gol di mano premaradoniano), a Vercelli se la presero, e anche loro gli dedicarono il vecchio stadio Robbiano (un aviatore).

Piola era un calciatore così forte, così fisico che anche quando arrivò nel calcio italiano il re degli arieti, lo svedese del Milan Gunnar Nordahl, capace di gol che spaccavano il mondo, quel tipo del Bar Sport disse che di gol di p o s s e s s o, d’imperio, di s f o n d a m e n t o non si poteva parlare se non si erano visti i gol di Silvio Piola.

Adesso dovrebbero esserci i derby in serie B nei due campi intitolati a Piola, ma c’è subito stato chi ha detto che per fare incasso le due partite saranno probabilmente giocate all’Olimpico del Toro.

Chissà cosa sa dire ancora alla gente calciofila e calciomane ma ahimé non anche calciologa di oggi questa storia favolosa e favolistica della Pro che batteva le grandi, che esaltava il quadrilatero pallonaro piemontese, in ordine alfabetico Alessandria Casale Novara Vercelli ma Vercelli lato più nobile (e c’era poi chi parlava di cinque lati, ci metteva anche il Derthona di Tortona).

Chissà se c’è chi sa decidere che quel calcio era veramente grande, e non invece un calcio ancora piccolo dove i piccoli coraggiosi e grintosi e generosi e insomma vercellesi potevano emergere (ci fu anche lo scudetto del Casale nel 1914, appena finita la prima era vercellese).

Bisognerebbe saper davvero raccontare una certa altra Italia, e prima saper bene capirla. E volerla conoscere. Perché ci sono sporadiche ma tenaci Vercelli in Italia, ognuna col suo miracolo storico e con la capacità di ricavare ancora del fuoco dalla brace antica. Anche nello sport.

Dove Vercelli è stata ai tempi capitale della scherma con le prodezze e le azioni didascaliche e didattiche del suo grande Marcello Bertinetti, il calciatore che divenne grande campione olimpico di sciabola, ultimamente penultima mohicana Elisa Uga prima campionessa mondiale di spada, dove Vercelli ha prima rivaleggiato con Novara dominatrice dell’hockey a rotelle poi ha persino preso il testimone nella staffetta per vincere quando Novara aveva smesso. Dove adesso c’è Giovanni Pellielo, suo tiratore, che va ai Giochi di Londra, cercando l’oro olimpico dopo due argenti e un bronzo.

Vercelli della splendida architettura del Sant’Andrea ma anche dei nuovi fermenti culturali che ne hanno fatto un’appendice dei musei Guggenheim, Vercelli del celebre concorso musicale intitolato a Viotti, Vercelli che patisce la crisi di tutto, compresi i problemi del riso che non è più oro, ma intanto ogni anno in omaggio ad un rito sacro di lavoro «espone» ancora alcune mondine, anche cinesi, a liberare gli stagni dalle sterpaglie, nessuna come Silvana Mangano di «Riso amaro» ma ognuna con tutta la dignità ormai museale di un mestiere che fece piangere, cantare e crescere tante donne. Vercelli che non ha più Biella nella sua provincia e che nelle sue vicende diciamo sportive massime conserva sotto formalina profumata la storia dello spareggio 1971 per passare dalla serie D alla serie C. Primo match con rimonta vercellese da 0-2 a 2-2, poi da 2-4 a 4-4, altra partita e 2-2, risultato bloccato, monetina, e toh Vercelli che sconfigge Biella in materia monetaria, tanto gran riso nel senso di risata.