Sergio Romano, Corriere della Sera 11/6/2012, 11 giugno 2012
Mi piacerebbe avere più ragguagli sulla notizia apparsa sui giornali internazionali riguardante una legge del governo di Israele che ordina la partenza di 25 mila immigranti africani per ridurre l’immigrazione che «minaccia la natura eminentemente ebrea»
Mi piacerebbe avere più ragguagli sulla notizia apparsa sui giornali internazionali riguardante una legge del governo di Israele che ordina la partenza di 25 mila immigranti africani per ridurre l’immigrazione che «minaccia la natura eminentemente ebrea». Alberto Poldi ingpold@alice.it Caro Poldi, L a legge è stata proposta durante i lavori di una commissione del Knesset (il Parlamento israeliano) da due deputati del partito Likud, Danny Danon e Miri Regev. Dovrebbe fissare il numero degli immigrati clandestini che il governo ha l’obbligo di espellere ogni mese e il primo ministro Benjamin Netanyahu sarebbe pronto a iniziare con l’espulsione di 10 mila sudanesi. Ma occorre attendere che la Corte suprema si pronunci sulla materia. Oggi le leggi vigenti consentono alle autorità israeliane di raccogliere i clandestini per tre anni in campi di custodia costruiti in prossimità delle frontiere. Ma per meglio controllare il fenomeno, il primo ministro ha promesso la costruzione lungo il confine israelo-egiziano di una rete d’acciaio alta 5 metri e lunga 240 km. Ha altresì aggiunto, tuttavia, che esistono convenzioni internazionali firmate dal Paese e che il governo deve rispettarle. Gli immigrati clandestini in Israele sono circa 70 mila (più o meno l’1% della popolazione israeliana) e provengono soprattutto da due Paesi dell’Africa dove si combatte: il Sudan e l’Eritrea. Non è sempre facile, quindi, distinguere il migrante sociale che parte alla ricerca di un lavoro e colui che cerca di salvare se stesso e la propria famiglia fuggendo da un Paese dove i diritti civili sono minacciati da milizie combattenti o governi autoritari. Il fenomeno è diventato più grave dopo le rivolte arabe del 2011. Prima delle grandi dimostrazioni di piazza Tahrir, l’esercito egiziano era in grado di controllare il deserto del Sinai e la frontiera con Israele. Oggi ha altri compiti più pressanti e ha sguarnito un’area che è diventata per molti aspetti una terra di nessuno. Come in Italia anche in Israele, l’immigrato clandestino suscita le reazioni ostili di una parte importante della popolazione, ma s’inserisce abbastanza facilmente nel mercato nero del lavoro e degli alloggi. Gli eritrei e i sudanesi si sono installati soprattutto nei quartieri meridionali di Tel Aviv, hanno trovato un impiego, sia pure precario e male retribuito, dividono una squallida stanza con altri compagni di sventura. A Gerusalemme, negli scorsi giorni, in uno di questi appartamenti, abitato da una decina di immigrati, è scoppiato un incendio, provocato probabilmente da chi ritiene che la loro presenza rappresenti una minaccia per lo Stato ebraico. È questa la ragione per cui lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, in un articolo pubblicato da La Stampa del 5 giugno, propone che per i lavori meno desiderabili, ma pur sempre necessari, vengano almeno impiegati i palestinesi della Striscia di Gaza. Questa decisione, sostiene Yehoshua, potrebbe dare un contributo alla normalizzazione dei rapporti con Gaza. Ma troverebbe probabilmente sulla sua strada l’opposizione degli stessi gruppi che chiedono una legge per l’espulsione dei clandestini africani.