Giuseppe Bedeschi, Corriere della Sera 11/6/2012 (The Guardian), 11 giugno 2012
I n Italia l’interesse per il pensiero politico di Rousseau è sorto abbastanza tardi. Chi consulti un repertorio bibliografico troverà ben poco sul grande ginevrino, in lingua italiana, nella prima metà del Novecento: un libro di Solazzi sulle Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, del 1907; un saggio di Del Vecchio Sui caratteri fondamentali della teoria politica del Rousseau, apparso su una rivista nel 1912; una monografia di Sciacky (Il problema dello Stato nel pensiero di Rousseau) del 1948 e una di Saloni (Rousseau) del 1949
I n Italia l’interesse per il pensiero politico di Rousseau è sorto abbastanza tardi. Chi consulti un repertorio bibliografico troverà ben poco sul grande ginevrino, in lingua italiana, nella prima metà del Novecento: un libro di Solazzi sulle Dottrine politiche del Montesquieu e del Rousseau, del 1907; un saggio di Del Vecchio Sui caratteri fondamentali della teoria politica del Rousseau, apparso su una rivista nel 1912; una monografia di Sciacky (Il problema dello Stato nel pensiero di Rousseau) del 1948 e una di Saloni (Rousseau) del 1949. A ciò si possono aggiungere il breve profilo che Gaetano Salvemini dedicò a Rousseau nel suo libro su La Rivoluzione francese (1905) e le poche pagine di Benedetto Croce sul ginevrino negli Elementi di politica (1924). Veramente poco, dunque, rispetto agli studi apparsi in quel periodo non solo in Francia, come è ovvio, ma anche in Inghilterra (con opere come quella di Cobban) e in Germania (è del 1932 il fondamentale saggio di Cassirer, Das Problem J.-J. Rousseau). In realtà, un interesse profondo per Rousseau è sorto in Italia solo nella seconda metà del Novecento, con il diffondersi impetuoso del marxismo. Il filosofo che avviò la rivalutazione marxista del ginevrino fu Galvano Della Volpe, seguito dai suoi allievi (Umberto Cerroni e Lucio Colletti). Nel 1957 Della Volpe pubblicò un libro che ebbe un buon successo (ne uscirono varie edizioni): Rousseau e Marx. In quest’opera Della Volpe vedeva in Rousseau il pensatore che aveva distrutto il quadro teorico del liberalismo (in quanto aveva rifiutato la democrazia rappresentativa o delegata e aveva rivendicato una democrazia diretta) e che aveva posto l’esigenza di una società nuova, incardinata non più sull’«astratto diritto borghese», bensì sul riconoscimento sia dei bisogni sia dei talenti degli individui. Portando avanti questo filone interpretativo, Umberto Cerroni (nel suo Marx e il diritto moderno, 1962) attribuiva a Rousseau il merito di avere avviato la crisi della dottrina dei diritti naturali, potenziandone la componente più strettamente politica e risolvendo il Giusnaturalismo non già nel «garantismo» dei diritti individuali, bensì nella creazione di una comunità politica tendenzialmente egualitaria, coesa e organica. Ma il saggio che doveva dare la più vigorosa interpretazione marxista di Rousseau fu quello che Colletti pubblicò nel 1968 (e che ebbe larghissima diffusione): Rousseau critico della «società civile». Qui Colletti sosteneva che i concetti centrali della concezione politica di Marx erano già stati svolti dal ginevrino. Infatti Rousseau non solo aveva invalidato l’idea cristiana della «caduta», del peccato originale, ma aveva mostrato che l’uomo, originariamente buono, era stato guastato dall’iniqua organizzazione della società e che quindi il problema della rigenerazione dell’uomo veniva a coincidere con il problema della rigenerazione della società. Secondo Colletti, il ginevrino aveva dato un formidabile contributo alla teoria politica socialista, con la sua percezione precisa del fatto che la società borghese moderna è fondata sulla concorrenza, sulla opposizione e sul contrasto degli interessi e che dunque in essa i rapporti sociali sono in fondo rapporti a-sociali; con la sua concezione dello Stato come di uno strumento costruito dai ricchi a difesa dei loro privilegi; con il suo rifiuto dei cardini dello Stato liberale borghese: la divisione dei poteri, la rappresentanza (poiché la «volontà generale» è inalienabile, dunque non è delegabile, e il popolo deve esercitare direttamente la propria sovranità). Perciò nel quadro tracciato da Rousseau (sottolineava Colletti), il vecchio Stato doveva essere distrutto e si doveva costruire una società nuova, o piuttosto una comunità, profondamente solidale, coesa e organica, la quale doveva autogovernarsi attraverso l’esercizio della democrazia diretta o assembleare, come nelle antiche poleis greche a reggimento democratico. (È certo singolare che Colletti non ricordasse una significativa ammissione di Rousseau: che la democrazia diretta poteva essere realizzata solo nei piccoli Stati, non nei grandi: una ammissione che riduceva di molto l’applicabilità della sua teoria, come sottolineò Paolo Rossi in un suo saggio introduttivo agli scritti roussoviani pubblicati da Sansoni nel 1972). Naturalmente, restavano fuori dal quadro tracciato da questi studiosi marxisti le considerazioni che, a proposito di Rousseau, erano state formulate dal pensiero democratico-liberale italiano. Nel suo libro La Rivoluzione francese 1788-1792 Salvemini, tracciando un ritratto del ginevrino, aveva parlato di «infiltrazioni totalitarie» e aveva criticato la sua idea di una «società perfetta» e di una «unanimità infallibile». Alla teoria roussoviana Salvemini contrapponeva l’idea di una democrazia in cui «la maggioranza abbia il diritto di governare ma abbia il dovere di rispettare nella minoranza il diritto di critica e quello di diventare alla sua volta maggioranza». Era un punto, questo, sul quale insisté molto Luigi Einaudi. In un discorso su Rousseau pronunciato all’Università di Basilea nel 1956 (poi raccolto nelle Prediche inutili), egli sottolineò diversi aspetti inquietanti dell’idea roussoviana di «volontà generale». Einaudi ricordava che nel Contratto sociale si legge che il popolo è «una moltitudine cieca, la quale spesso non sa ciò che vuole, perché raramente conosce quel che è bene per lei». E affinché la «volontà generale» possa affermarsi occorrono, secondo il ginevrino, due condizioni: che non ci siano partiti ad alterare il giudizio dei singoli (poiché i partiti sono veicoli di interessi particolari e non generali) e che ci sia una guida (il famoso «legislatore», sul tipo di Licurgo) che educhi profondamente gli uomini, che trasformi la loro natura, che adegui la loro volontà alla ragione. Solo in questo modo i cittadini riuniti sono in grado di esprimere la «volontà generale». E chi dissente da essa deve piegarvisi, deve ammettere di essersi sbagliato, deve riconoscere la Verità. Dunque, osservò Einaudi, in questa concezione il cittadino che dissenta dalla maggioranza non ha il diritto di propugnare le proprie opinioni e quindi non ha il diritto, ove riesca a persuadere altri, di volgere la minoranza in maggioranza e di modificare le leggi. In questo modo però, diceva Einaudi, Rousseau ha teorizzato uno Stato totalitario, con conseguenze esiziali: «Da Robespierre a Babeuf, da Buonarroti a Saint-Simon, da Fourier a Marx, da Mussolini a Hitler, da Lenin a Stalin, si sono succedute le guide a insegnare ai popoli inconsapevoli quale era la verità, quale era la volontà generale, che essi ignoravano: ma che una volta insegnata e riconosciuta, i popoli non potevano rifiutarsi di attuare». Questo appassionato dibattito su Rousseau è vivo ancora oggi. A trecento anni dalla nascita del grande ginevrino, il suo pensiero continua a dividere le menti nella perenne discussione sui principi e sulle regole della democrazia.