Massimo Sideri, Corriere della Sera 08/06/2012, 8 giugno 2012
MOLESKINE LA MILANESE, APPUNTI DI BORSA —
Per tutti noi è sinonimo di Bruce Chatwin, Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Vincent Van Gogh. Strumento di sopravvivenza di scrittori veri o aspiranti tali (il 50% della popolazione mondiale) e simbolo del kit del nomade contemporaneo, come la valigia. Quando pensiamo ai taccuini Moleskine, moderno baluardo dell’appunto privato nell’era del post pubblico sui social network, la Francia sembra a un passo da noi. La Gare du Nord, i tavoli dei bistrot. Sarà per quell’aneddoto raccontato dallo stesso Chatwin ne Le vie dei canti: quando nel 1985 scoprì che la fabbrica stava per fallire, corse nella sua cartoleria parigina a comprare tutto lo stock su cui poi scrisse il libro stesso. E invece Moleskine è un marchio 100% milanese. E anche se il controllo ora è di un fondo francese, Syntegra Capital, sono dei designer meneghini guidati dalla sociologa-manager e anche piccola azionista, Maria Sebregondi, che hanno permesso di arrivare all’avvio dell’iter per lo sbarco a Piazza Affari della società, una quotazione di pura «carta» nel decennio della digitalizzazione di prodotti e simboli.
Certo, l’aneddoto di Chatwin è vero. Ma il marchio e l’industrializzazione del taccuino nascono in realtà nel ’97 da un’idea di Sebregondi e l’impegno del piccolo editore milanese Modo&Modo che nel 2006 ha poi venduto al fondo. «I taccuini esistevano, ma erano un oggetto anonimo e di produzione artigianale» rielabora Sebregondi di fronte a una libreria tappezzata di Moleskine. «Oltre che viaggiatrice ero anche una appassionata di letteratura di viaggio. Così nel ’97, leggendo proprio il capitolo di Chatwin, pensai con Francesco Franceschi (l’imprenditore che aveva lanciato le «Parole di cotone», le t-shirt letterarie da libreria, vero cult per i teen ager degli anni Novanta, ndr) al taccuino, come uno dei prodotti legati al nomadismo contemporaneo».
Ironia della storia, pur essendo nell’era pre-digitale non aveva avuto problemi con il copyright. «Avevamo fatto delle ricerche e non c’era nessun deposito. Erano taccuini neri e artigianali. Invece il nome Moleskine viene da Chatwin, era un nomignolo che usava per chiamarli».
Risolta la genesi, resta un po’ il mistero di un successo 100% di carta: il fatturato dell’azienda è passato dai 20,8 milioni del 2006 agli attuali 66,6 distribuiti per il 56% in Europa, il 30% tra Usa e Canada, il 9 in Asia e il 5% in Medio Oriente e Africa. Come si arriverà a convincere un mercato che ha dematerializzato pure gli scambi ad acquistare azioni con il sottostante di cellulosa? «Esistono elementi di connessione tra l’analogico e il digitale. E quando li abbiamo disegnati nel ’97 li abbiamo pensati anche dal punto di vista estetico per stare bene insieme alla tecnologia. Era il momento di laptop e primi palmari. Sono oggetti complementari ad iPad e smartphone, che anzi permettono attraverso dei rassicuranti appunti di dialogare con la grande nuvola digitale che ci sovrasta».
Poi, chiaro, ci vuole anche il marketing. Ed ecco allora gli altri oggetti del kit, come borse e penne, che proprio da oggi saranno venduti pure in due temporary store monomarca, a Milano e a Roma.
Massimo Sideri