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 2012  giugno 08 Venerdì calendario

LE PROVE DELLE BOMBE A GRAPPOLO CHE DEVASTANO IL SUDAN —

La micidiale bomba si è conficcata nel terreno a una cinquantina di metri dalla capanna di Sakina Mohammed. Non è esplosa, altrimenti avrebbe provocato una strage. Il ventre del lungo cilindro si è spaccato come la buccia di una melagrana e dalla fenditura del metallo grigiastro sono uscite decine di granate più piccole. Di bombe a grappolo come queste, vietate dalla Convenzione di Ginevra, ne abbiamo viste almeno quattro inesplose, sulle Montagne Nuba, in Sud Kordofan. Non sono ordigni diretti contro obiettivi militari, piuttosto colpiscono i civili e servono a terrorizzare le popolazioni. Micidiali.
Nel Sud Kordofan, una regione cuscinetto controllata dal Sudan e abitata da neri africani in leggera maggioranza musulmani (la minoranza è cristiana o animista), i governativi le lanciano dagli Antonov, aerei di costruzione sovietica, sui villaggi accusati di collaborare con i guerriglieri dell’Spla-N (il Sudan People’s Liberation Army Nord).
Il referendum che il 9 gennaio dell’anno scorso ha sancito l’indipendenza del Sud Sudan ha lasciato in sospeso il destino di tre regioni ricche di petrolio: la contea di Abyei, lo Stato del Blue Nile e quello del Sud Kordofan. Mentre nella prima, per garantire la pace, è stato inviato un contingente di soldati etiopici e l’estrazione del greggio è stata sospesa, nei due Stati il governo di Khartoum pretende di governare con il pugno di ferro, ma la guerriglia dell’Spla-N regna su gran parte del territorio. In mano ai lealisti restano le città più grandi e il controllo dello spazio aereo da cui vengono lanciate le bombe.
In spregio alla comunità internazionale e forse per terrorizzare ancora di più i civili, il presidente del Sudan Omar Al Bashir, ricercato dal tribunale internazionale per genocidio, ha nominato governatore del Sud Kordofan uno dei suoi sostenitori più affidabili: Ahmed Mohammed Harun, anch’egli accusato dalla Corte dell’Aja di crimini contro l’umanità. In realtà non si è trattato di una nomina ma di un’elezione, in cui Harun ha battuto con i brogli il leader dell’Spla-N, Abdelaziz Al-Hilu.
E si è messo subito all’opera, lui che quando si occupava di Darfur organizzava i janjaweed (i sanguinari «diavoli a cavallo» che bruciavano i villaggi, violentavano le donne, rapivano i bambini e ammazzavano gli uomini). Un video pubblicato dalla televisione Al Jazeera lo mostra mentre arringa i suoi soldati incitandoli ad ammazzare i nemici, stuprare le loro donne e razziare i villaggi. Eppure molti di questi nemici — civili — sono musulmani come lui. Questa non è una guerra di religione. Il vero obiettivo è il controllo delle risorse. E siccome in queste regioni non vale più la scusa «ammazziamo gli infedeli nel nome di dio», si è passati al razzismo: gli africani del Sud Kordofan vengono etichettati come «fastidiosi insetti da schiacciare senza pietà». E dove non si arriva con l’esercito ci sono gli aerei e le loro micidiali bombe a grappolo.
Buram è un villaggio devastato dalle continue incursioni. Gran parte dei suoi abitanti si è rifugiata nelle caverne sulle montagne che lo circondano. Venditori e clienti scendono al mercato ogni mattina, ma appena si sente il rombo di un aereo corrono nei loro nascondigli con la velocità di un lampo. Mercato? «No, no — risponde Asha Ahmed — una donna che prepara il tè in attesa di qualche avventore —. Qui non c’è nulla perché non arriva nulla. Il commercio è finito». Su una bancarella qualche sigaretta, su un’altra un sacchetto di sale, su una terza medicinali scaduti. Manca perfino la frutta e la verdura. Solo una decina di manghi asfittici il cui costo, 30 centesimi di euro l’uno, è proibitivo.
«Qui non coltiva più nessuno — spiega Sadiq —. Le bombe hanno costretto la popolazione a muoversi in continuazione. Gli invasi per raccogliere l’acqua e i pozzi non hanno più manutenzione. L’agricoltura, un tempo vera ricchezza di queste terre, non esiste più». Sui Monti Nuba gli aiuti umanitari non arrivano. Sud Kordofan e Blue Nile sono ufficialmente sotto la giurisdizione sudanese, il cui governo non dà i permessi — né alle agenzie dell’Onu né alle organizzazioni non governative — per la distribuzione del cibo. E dal Sud Sudan nessuno, per motivi diplomatici, osa passare il confine per raggiungere i villaggi affamati. O meglio quasi nessuno, perché qualcuno manda sparuti camion con cibo e medicine. Ma manca una struttura per la distribuzione, per cui vengono riforniti solo i villaggi più grossi. Nei giorni passati, con i guerriglieri dell’Spla sulle montagne Nuba, i bombardamenti sono stati continui, anche se lontani dai nostri accampamenti: «Non abbiamo artiglieria antiaerea — spiega Kawa Alo Kori, l’ufficiale (il suo grado è brigadiere generale) che comanda il drappello che ci porta in giro — quindi quando arrivano i bombardieri meglio filarsela». Durante una delle fughe abbiamo trovato rifugio nelle grotte, peraltro già occupate da sfollati, intorno a Buram. «Ma se ci colpisce una scheggia dov’è la clinica più vicina?», mi informo. Kawa scoppia in una risata amara: «Qui non ci sono cliniche. Abbiamo qualche fascia e qualche medicina. Un disinfettante però dovremmo trovarlo, altrimenti possiamo usare la sua fiaschetta. Cosa c’è dentro, whisky?».
La caverna dove abbiamo trovato rifugio è già occupata da Ahmad Abdulla e dalla sua famiglia: due mogli, cinque figli e qualche capra che incurante delle bombe bruca gli sparuti fili d’erba davanti all’ingresso. Appesi sul soffitto a testa in giù uno sciame di pipistrelli: «Non si preoccupi — rassicura il "padrone di casa" — volano solo di notte». Poi aggiunge: «Non abbiamo nulla da mangiare, solo erba e radici. Siamo in concorrenza diretta con le capre». Buram è solo a una trentina di chilometri da Kadugli, la capitale del Sud Kordofan, controllata dai governativi: «La città è circondata e i rifornimenti possono arrivare solo per via aerea — spiega il maggiore dell’Spla, Hashim Abdalla —. Le truppe regolari hanno il morale a pezzi. I soldati non hanno nessun motivo per combattere contro di noi, così molti disertano e chiedono di entrare nei nostri ranghi, altri abbandonano uniformi e armi e scappano verso nord, a casa. I piloti dei bombardieri non sono sudanesi, ma mercenari che vengono dall’Europa dell’Est: russi, ucraini, bielorussi… volano altissimi per evitare di essere colpiti dai razzi. E noi non abbiamo contraerea».
Forse Hashim Abdalla avrebbe dovuto utilizzare il verbo all’imperfetto: «Avevamo».
Di ritorno all’aeroporto di Juba, la capitale sud sudanese, infatti, incrocio un gigantesco aereo da carico di fabbricazione russa. Gli uomini che brulicano attorno stanno scaricando enormi casse. «Finalmente abbiamo anche noi i cannoni contraerei», spiega entusiasta uno degli operai. C’è da scommettere che quelle armi pesanti varcheranno presto il confine e che cambiate le condizioni della guerra i piloti slavi non avranno più il coraggio di bombardare gli inermi villaggi delle Montagne Nuba.
Massimo A. Alberizzi