Sergio Rizzo, Corriere della Sera 08/06/2012, 8 giugno 2012
MAXI-PARCELLE E RISCHIO ABUSI. L’AFFARE DEGLI ARBITRATI NELLE MANI DEI POLITICI LOCALI —
«Il prezzo base era di 2 miliardi di lire di allora. L’arbitrato, ovviamente, ha dato ragione alla parte privata e ha liquidato 152 miliardi». Per far capire quanto possa essere folle la logica degli arbitrati, Antonio Di Pietro ha provato mercoledì a scioccare i suoi colleghi parlamentari tirando fuori la storia di un vecchio appalto che gli era capitato fra le mani quando faceva il magistrato a Milano. Ma è stato tutto inutile. Perché la Camera, dopo aver stabilito che nessun magistrato potrà più contribuire a questa forma di giustizia privata fra Stato e imprese, ha approvato una norma che potrebbe allargare ancora di più, anziché limitarlo com’era stato promesso, il grande affare degli arbitrati. Con ripercussioni incalcolabili. Si tratta di un emendamento proposto dalla democratica Doris Lo Moro (che per otto anni, dal 1993 al 2001, aveva anche ricoperto l’incarico di sindaco della città calabrese di Lamezia Terme) recepito dalla relatrice della legge, la pidiellina Jole Santelli, ex sottosegretario alla Giustizia in un paio di governi di centrodestra. Parliamo della legge anticorruzione, varata in pompa magna dal passato governo Berlusconi il primo marzo del 2010, sull’onda dello scandalo degli appalti della Cricca, che da allora arranca fra mille insidie in Parlamento. Dove molti sono assai poco entusiasti davanti alla prospettiva di regole più rigide e trasparenti nella gestione della cosa pubblica. E proprio perché quel provvedimento avrebbe lo scopo di mozzare le unghie a corrotti e corruttori, di tutto ci si poteva attendere ma non che fosse condito con una norma che potrebbe avere l’effetto contrario.
Ma che cosa c’è esattamente lì dentro? L’articolo 2 del disegno di legge anticorruzione approvato mercoledì alla Camera dice che d’ora in poi si potrà fare ricorso agli arbitrati soltanto in caso di autorizzazione motivata dell’amministrazione interessata. Aggiungendo che gli arbitri dovranno essere «preferibilmente» dirigenti pubblici. Vediamo se abbiamo capito bene. Gli arbitrati sono sempre stati gestiti dai magistrati amministrativi o contabili (quelli ordinari da tempo erano stati esclusi), oppure avvocati dello Stato. La formula più diffusa, quella dei cosiddetti «arbitrati liberi», con il collegio composto da un rappresentante della pubblica amministrazione, uno dell’impresa privata, e il presidente scelto di comune accordo dai due: di solito, un giudice. Prima che venisse posto un tetto alle retribuzioni per questi incarichi extragiudiziali, i compensi potevano arrivare anche a cifre stratosferiche. Per non parlare dei conflitti d’interessi a testata multipla che questo sistema ha prodotto. Un caso per tutti? Quello di un giudizio arbitrale del 2008 fra Astaldi e Anas, gestito da un collegio composto dal consigliere di Stato Claudio Zucchelli, capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi, dal giurista Berardino Libonati, ex presidente dell’Alitalia, e dall’avvocato Giuseppe Consolo, parlamentare in carica. Compenso della terna: un milione 455 mila euro.
L’Autorità per la vigilanza degli appalti pubblici ha calcolato che in un solo anno, il 2007, gli arbitri abbiano intascato parcelle per 50 milioni. E se tanti si sono arricchiti con gli arbitrati, lo Stato invece ci ha rimesso quasi sempre. Nel 2009, ultimo anno per il quale abbiamo i dati precisi, la pubblica amministrazione è risultata soccombente nel 94% dei 136 arbitrati «liberi». E non è stato certamente l’anno peggiore, anche se lo Stato ha dovuto sobbarcarsi una spesa aggiuntiva di 414 milioni: il costo delle opere pubbliche interessate da questo genere di controversie è lievitato mediamente del 18 per cento. Ogni due appalti di importo superiore a 15 milioni si è generata una causa privata.
Questo accadeva finora. E adesso? Gli arbitrati diventano dunque di competenza dei «dirigenti pubblici», e si potrà ricorrere a «estranei» all’amministrazione soltanto in casi eccezionali. Sorvoliamo sul fatto che anche gli importi dei compensi, ora soggetti a un tetto, verranno di fatto liberalizzati: la legge dice che nell’autorizzazione alla causa arbitrale dev’essere «indicata» anche la retribuzione del collegio. Sostengono che è una forma di calmiere. Forse. Ma tutto dipende da che cosa si «indica».
Il fatto più inquietante è però che la designazione degli arbitri può passare di fatto nelle mani dei politici locali. Chi altro gestisce le «amministrazioni interessate» alla maggior parte degli appalti cui spetta l’eventuale decisione di imboccare la strada delle cause private, se non costoro? E chi sono i «dirigenti pubblici» di cui si parla? Far indossare ai magistrati i panni di arbitri non era certamente il massimo dell’eleganza, ma ci si è chiesto cosa può succedere nel momento in cui funzionari pubblici locali venissero effettivamente investiti da questa responsabilità? Altro che conflitti d’interessi... A chi ha votato questa norma consigliamo di rileggere un interessante pamphlet sul federalismo fiscale scritto da Vito Tanzi, l’ex sottosegretario all’economia di uno dei vari governi Berlusconi, già responsabile italiano al Fondo monetario internazionale, per Carnegie endowment for international peace, organizzazione no profit statunitense, nell’aprile del 2001. Lì c’è scritto senza mezzi termini che «il decentramento potrebbe far aumentare la corruzione». Perché «le istituzioni locali sono meno preparate di quelle nazionali, quindi la loro capacità di controllare gli abusi dei pubblici funzionari è inferiore». Un discorso teorico, certo: ma lucidissimo. E certo Tanzi non pensava nemmeno alle aree più esposte a infiltrazioni criminali...
Sergio Rizzo