FABIO MARTINI, La Stampa 8/6/2012, 8 giugno 2012
Il Professore e i poteri forti “Ho perso il loro appoggio” - Mario Monti? Niente più e niente meno che il portavoce dei poteri forti
Il Professore e i poteri forti “Ho perso il loro appoggio” - Mario Monti? Niente più e niente meno che il portavoce dei poteri forti. Quella nomea, così lapidaria, il premier tecnocrate non l’ha mai digerita, tanto è vero che proprio lui aveva provato a stroncarla sul nascere: il 18 novembre, 48 ore dopo aver giurato al Quirinale, Monti si era presentato nell’aula di Montecitorio. E lì, davanti a seicento deputati ancora molto rispettosi, aveva detto: «Poteri forti? Non ne conosco e magari l’Italia ne avesse!». Duecento giorni più tardi, cioè ieri, Monti è tornato sull’argomento, intervenendo in videoconferenza, al congresso nazionale dell’Acri e dicendo testualmente: «Il mio governo ed io abbiamo sicuramente perso negli ultimi tempi l’appoggio che gli osservatori ci attribuivano da parte dei cosiddetti poteri forti: in questo momento non incontriamo il favore di un grande quotidiano, considerato voce autorevole dei poteri forti e non incontriamo i favori di Confindustria». Monti sembra alludere al «Corriere della Sera», il quotidiano per il quale ha scritto editoriali per molti anni, un giornale al quale il premier ha attribuito un’etichetta molto precisa e che nel corso di questi mesi aveva pubblicato alcuni commenti critici sull’azione del governo, in nessun caso irrispettosi o «personalizzati». In serata il direttore del «Corriere» Ferruccio De Bortoli ha risposto alle critiche su «Twitter» con una frase enigmatica: «Poteri forti, poteri storti, poteri morti». Ma a prescindere dalla querelle tra Monti e il «Corriere della Sera», l’esternazione del presidente del Consiglio riapre il capitolo del suo rapporto con i cosiddetti «poteri forti» che, in verità, in questi mesi ha prodotto episodi in controtendenza rispetto ai luoghi comuni prevalenti. Certo, in Italia è sempre stato difficile stabilire una volta per tutte cosa si intenda per poteri forti. Anzitutto appare impresa difficile per lo stesso Monti che, sei mesi fa, ha considerato quei poteri come inesistenti e che ieri invece lui stesso ha «gratificato», considerandoli co-promotori di una certa fronda nei suoi confronti. In realtà l’artefice della prima diffusione del termine in Italia è stato Pinuccio Tatarella, vicepresidente in quota An del primo governo Berlusconi che in una celebre intervista a «La Stampa» del 10 agosto 1994 così si espresse: «I poteri forti sono quei poteri che lavorano invisibili e non per influenzare lo Stato, ma per diventare lo Stato: Mediobanca, i servizi segreti, la massoneria, Bankitalia, i gruppi editoriali con le loro intese, la grande industria privata, la Corte Costituzionale, il Csm». Una definizione che, al di là della precisione (o dell’approssimazione) concettuale, ha fatto fortuna. Ma prendendo per buona proprio la definizione tatarelliana, è difficile inchiodare Monti come organico a quei poteri. La sua appartenenza ad organismi internazionali influenti, controversi e talora molto riservati come la Trilaterale, Bilderberg, Bruegel, Goldman Sachs, non gli ha impedito nella sua stagione di governo di produrre riforme che sicuramente hanno creato fastidi, per esempio nel mondo della finanza e delle banche. Eloquente l’articolo 36 del decreto Salva Italia: il divieto per la stessa persona di sedere contemporaneamente nei consigli di amministrazione di aziende dello stesso ramo (banche, assicurazioni, finanza), teoricamente indipendenti tra loro e in concorrenza. Per decenni questi potenziali «conflitti di interesse» sono stati consentiti in virtù di una normativa insensibile alla questione, mentre la riforma Monti, operativa dai primi di maggio, ha imposto a tanti banchieri di optare tra un Cda e l’altro, rinunciando a svariati doppi incarichi. Una riforma liberale che alcune settimane fa è stata salutata con grande favore da uno dei giornali più liberisti del mondo, il «Financial Times» che ha definito «coraggiosa» la decisione di Monti di rafforzare la norma del Salva Italia che vieta la duplicazione degli incarichi in società concorrenti, liberando l’Italia «dalla sua bizantina cultura della partecipazione azionaria».