Enrico Deaglio, il venerdì 8 giugno 2012, 8 giugno 2012
Mirafiori. Tra suv e silenzi, la fiaba è arrivata all’ultima pagina – TORINO. La Fiat Mirafiori è un enorme corpo immobile
Mirafiori. Tra suv e silenzi, la fiaba è arrivata all’ultima pagina – TORINO. La Fiat Mirafiori è un enorme corpo immobile. Lo tocchi e non risponde. Forse è già morto. Una città di cemento circondata da muri su cui nessuno da tempo scrive più nulla (oh, se aveste visto quei muri, quarant’anni fa, quanta poesia: una lunga scritta indelebile ammoniva, quasi dantesca: «Quando la merda avrà un valore, ai proletari rulleranno il culo»). Una fortezza disseminata di varchi con cellule fotoelettriche, videocamere, sbarre, ormai abbandonati. La landa desolata di viali, piazzali, parcheggi vuoti, da cui non proviene più un suono, non si alza un fumo. Silenti le officine cavernose delle presse gigantesche, delle interminabili catene di montaggio; fredda la centrale elettrica (che da sola potrebbe illuminare tutta Torino); erbacce sui 20 chilometri di binari della ferrovia interna. Se prendete una bicicletta e percorrete il perimetro rasento ai muri, come ho tatto in un giorno di maggio di «totale cassa integrazione», e pedalate intorno ai suoi due milioni di metri quadrati di superficie, potrete davvero non incontrare un’anima viva; non un opera- io, una guardia, un tossico, un venditore di limoni, una prostituta nigeriana, un cane randagio. Però, in fondo a un deposito vernici, tra la Porta Uno e la Porta Zero - mitici luoghi della Lotta di Classe del Novecento - ho visto pendere mollemente una bandiera della Juventus, la squadra del padrone, che festeggiava il «trentesimo scudetto». E così anche l’unico segno di vita era collegato a un falso perché, come molti sostengono, la Juventus di scudetti regolari ne avrà vinti al massimo una ventina. Fa uno strano effetto accarezzare i muri morti dello stabilimento Fiat Mirafiori. Come toccare un mostro gelatinoso spiaggiato o visitare un parente in coma vegetativo in ospedale. («Ieri gli parlavo e mi è parso facesse un sorriso...»). A un certo punto, mi è sembrato di essere in quel romanzo che cominciava con l’avvistamento di un enorme massa galleggiante nell’Oceano Atlanti- co, ed era nientemeno che il cadavere di Dio, e si scopriva che era un uomo bian- co lungo tré chilometri. Mirafiori è stato lo stabilimento industriale più grande d’Europa, simbolo e fondale folk di tragedie e sperante. Ora è un corpaccio ingombrante in coma, e intorno a lui si allestiscono le cerimonie degli addii. Si discute del referto mortuario: consunzione? Assenza di cure? Omicidio premeditato? Si discute delle esequie: Raderlo al suolo? Trasformarlo in un museo? Giorgio Airaudo, segretario della Fiom, mi fa il quadro della situazione. «Nel perimetro lavorano ancora 15 mila dipendenti, di cui ottomila operai, gli altri impiegati. Ma in realtà la fabbrica è quasi sempre ferma, gli operai sono in cassa integrazione straordinaria e ci rimarranno per un anno almeno. Per cui, chi aveva un salario mensile di 1200 euro, ne riceve 850. L’età media degli operai è di 54 anni e il governo ha ora porta- to l’et;i della pensione a 67 anni. È impossibile che ce la facciano». Ha ragione: mettere insieme automobili è un lavoro fisico che necessita bestie giovani, non vecchie carcasse. La Fiat, dal canto suo, nega di aver decretato la morte di Mirafiori. «Ribadiamo il nostro impegno, naturalmente lenendo conto dell’andamento del mercato». Dicono che Mirafiori produrrà un Suv Chrysler-Fiat per il mercato americano, ma, se succe- derà, sarà alla fine del 2013. n mercato, da parte sua, è disastroso: in Euro- pa tutti perdono (tranne Volkswagen che è diventata regina), ma Fiat perde molto più di tutti gli altri. In particolare gli italiani non comprano più Fiat; si vede che Marchionne gli sta antipatico. E pure Lapo, che fa il testimonial. Nello scorso maggio, il segnale rivela- tore. Per la prima volta sono stati messi in cassa integrazione anche gli «enti centrali», circa cinquemila impiegati, il cervello del gruppo automobilistico. Sono contabili, amministrativi, ma anche progettisti, designer, pubblicitari, marketing, finanziari, che gestiscono, dalla famosa «palazzina» (cinque piani per 220 metri, ricoperti di preziosa pietra bianca) tutti gli affari del gruppo. A Torino gira da tempo la voce che il cuore delle decisioni Fiat sarà trasferito a Detroit e quindi tutti interpretano questa prima cassa integrazione come la prima mossa del trasloco. Se chiedete alla Fiat, naturalmente vi dicono di no, ma aggiungono sospirando: «Certo, è una testa ormai troppo grande per un corpo così piccolo». Ma come si è arrivati a tutto ciò? Nove anni fa, anno 2003, arriva il nuovo amministratore delegato Sergio Marchionne. È un pesce strano: figlio di un carabiniere abruzzese, cittadino canadese, fratello della leader dei maoisti di Toronto, ha fatto apprendistato con il finanziere Sergio Cragnotti, ha residenza fiscale in Svizzera, ha piglio, idee, coraggio, carisma e spregiudicatezza. Tira fuori dai cassetti un progetto di una nuova Fiat 500 e ne fa un successo internazionale. Va d’amore e d’accordo con i sindacati, che non credono alle lo- ro orecchio quando dice: «Il costo del lavoro nell’industria dell’automobile incide per il 7,5 percento. Se anche salisse all’8, che male ci sarebbe?». Poi Marchionne fa il colpo della vita: pur a capo di una malandata Fiat, scala la Chrysier, colosso di Detroit, con una spericolatissima manovra che unisce il presidente Obama (che mette i soldi), i sindacati americani e quelli canadesi. Sull’onda, cerca di comprare la Opel, ma Angela Merkel non gliela da. Amplia gli investimenti in Brasile e in Polonia, ma non in Italia. Anzi, improvvisamente con gli italiani diventa molto esigente. Sostiene che lavorano poco, si mettono troppo in malattia e che i sindacati hanno troppo potere. Per cui, o si sta alle sue condizioni, oppure se ne va. Prendere o lasciare. Comincia dalla fabbrica di Pomigliano (alle porte di Napoli, dove si costruisce la nuova Panda, un modello che tira). Le sue proposte passano con grande maggioranza, i sindacati Fim e Uilm firmano, la Fiom (lo storico sindacato di origine comunista, in maggioranza nella rappresentanza) non ci sta e viene buttata fuori. Marchionne ha vinto. Gli basta Pomgliano? No, esce dalla Confindustria, perché la considera troppo timida, poi attacca Mirafiori. Spiega Marchionne: metto un miliardo nello stabilimento, ma a certe condizioni, torna il turno di notte, tolgo dieci minuti di pausa, gli straordinari obbligatori, se vi ammalate troppo non vi pago i primi due giorni di malattia, i delegati sindacali ve li scordate. Si va al voto nel gennaio del 2012 e la battaglia ha il sapore della battaglia tinaie tra Capitale e Lavoro, l’ultimo derby del Novecento. Di nuovo, i cancelli del grande stabilimento si popolano, tornano in massa ad assistere allo scontro vecchi operai, attivisti, sindacalisti, tutti a incoraggiare gli operai, i pochi rimasti, affinché non cedano al ricatto, non per mettano a Marchionne di mortificare la storia del movimento operaio. Le televisioni trasmettono in diretta lo spoglio delle schede. «Le carrozzerie hanno respinto raccordo!». «Anche le presse!». «La verniciatura è in massa per il no!». «Voto contrastato al montaggio motori, ma anche lì prevale il no!». Quand’ecco che, come nella grandi battaglie, arriva il voto degli impiegati: i «colletti bianchi» ribaltano il risultato in favore di Marchionne. Esito finale: 54 per cento sì, 46 per cento no. Marchionne caccia dalla fabbrica la Fiom, senza galateo. Vengono sbullonate le bacheche sindacali, sgombrati gli uffici (negli scatoloni finiscono bandiere, ci- meli, gli archivi, le fotocopiatrici, i ciclostili, le fotografie incorniciate di Giuseppe Di Vittorio, Bruno Trentin, Enrico Berlinguer, i megafoni, i fischietti). I de- legati Fiom possono distribuire volantini solo alla mensa o davanti alle macchinette del caffè. Mi ha detto Airaudo che la Fiom ha comprato un pulmino attrezzato, di quelli che usava la polizia di Stato nelle zone di spaccio di droga, lo ha piazzato di fronte alla «mitica» Porta Due. Funziona da ufficio, ma adesso sta quasi sempre in garage perche la fabbrica è vuota. Se ci pensate, è grottesco: Marchionne voleva spremere il limone operaio, ma non ha un solo modello che venda. La produzione che doveva andare a Mirafiori è andata a finire in Serbia, dove la Fiat non pagherà tasse per dieci anni e il salario operaio è di 360 euro. Così finisce una storia che era cominciata nel lontano 1939. L’Italia era allora un povero Paese agricolo, governato da un dittatore che aveva conquistato l’Etiopia, ma a Torino (per fortuna) qualcuno guardava all’America. Là il signor Ford aveva inventato la produzione di massa dell’automobile, frantumato il lavoro manuale in tanti movimenti semplici controllati da un cronometrista, operazioni banali che anche una scimmia poteva farle. Da enormi stabilimenti uscivano milioni di macchine che venivano vendute, a rate, al popolo. Giovanni Agnelli copiò l’idea, coraggiosamente. Nel 1937 cominciò la costruzione del più grande monumento all’industria che l’Europa avesse mai avuto, nelle campagne a sud della città di Torino. A quei tempi i sindacati erano fuori legge, ma il fascismo si era inventato le «corporazioni». Gli operai si chiamavano «maestranze», le fabbriche «opifici». Quando, per inaugurare lo stabilimento, venne addirittura il cavalier Benito Mussolini, Agnelli (che era senatore del Regno, indossava la camicia nera e si ora arricchito con i carri armati per il Duce) convocò le corporazioni e dettò le regole del galateo: «Tutte le maestranze dovranno essere presenti e avranno due possibilità. Applaudire o restare in silenzio». Le maestranze scelsero la seconda e Mussolini se ne andò imprecando contro «Torino, porca città». Fin dalla sua fondazione, quello stabilimento è stato davvero il centro del mondo. Gli operai, con grandi giacconi di pelle nera, ci arrivavano pedalando lentamente. Ai cancelli degli stabilimenti Fiat, per convincerli degli ideali del socialismo andarono di buon mattino personaggi come Antonio Granisci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, Piero Gobetti (che pure era liberale), Falco ne Lucifero, che diventerà il ministro della Real Casa Savoia. Nel 1943 gli operai di Mirafiori (la prima rivolta in Europa dopo quella del ghetto di Varsavia) scioperarono contro il nazifascismo. Nel 1945, dopo la vittoria, tentarono invece di far fuori Vittorio Valletta e di trasformare la Fiat in un’azienda coopetativa di Stato. Persero e Valletta si vendicò mandando i comunisti in «reparti confino», che avevano nomi allegri come Siberia o Russia. Negli anni Sessanta, in pieno boom economico, la Fiat cercò operai nel meridione e cosi arrivarono a Torino decine di migliaia di ragazzi. Erano single, in gamba, ribelli e quella fabbrica era vera- mente una caserma, con capi, calore e rumore insopportabili. La Fiat, che usava tenere una scheda per ogni suo di- pendente e manteneva a sti pendio una diffusa rete di spie, si trovò impreparata. Nel 1969 la rivolta dei giovani operai esplose e cambiò l’Italia. Ripensandoci: a quei ragazzi, l’Italia di oggi deve l’istituzione del weekend, la fine del lavoro di notte, un po’ di aumento del salario; e il diritto a non essere trattati come schiavi. Non solo: quei ragazzi spinsero l’industria a innovarsi; ed erano dei gran compratori di automobili Fiat. Nel 1980 il Sergio Marchionne di allora, Cesare Romiti, li attaccò frontalmente licenziandone 25 mila. (Allora erano 67 mila in tutto e vederli uscire correndo dalle porte, alla fine del turno, era una visione gioiosa, biblica; il trionfo della vita). Gli operai occuparono la fabbrica per 35 giorni (Berlinguer, magro come un passe- rotto, salì su un cancello e promise l’appoggio del Pci), ma gli operai persero fragorosamente e, di fatto, da allora, non rialzarono più la testa. Romiti vinse la sua guerra, ma finì nella polvere anche lui, lasciando una Fiat nei debiti e se stesso imputato per falso in bilancio. Lentamente lo stabilimento smise di essere il metronomo che scandiva i tempi di Torino e, da 11, i tempi dell’Italia. Pochi, malati, vecchi, stanchi e sconfitti, gli operai di Mirafiori - quelli che avevano fatto il lavoro sporco per la grande epopea del boom dell’industria italiana - diventarono invisibili. Parallelamente, gli italiani comprarono sempre meno Fiat. Quando l’avvocato Agnelli morì, nel 2003, decine di migliaia di operai, fornitori, concessionari, elettrauto, carrozzieri, spedizionieri, camionisti, gommisti, cittadini torinesi si misero in fila per salire le cinque rampe di scala della fabbrica del Lingotto per rendere omaggio al Re Morto, e vicino alla bara c’era la corona della Fiom Cgil. La famiglia era schierata a ricevere le condoglianze, che erano accompagnate da un’invocazione sommessa: «Non andate via». E ora, invece, se ne vanno. Marehionne, che gestisce il business per gli Agnelli (e per sé, naturalmente) non è più affezionato. Nella famiglia Agnelli, l’unico che forse a Mirafiori teneva davvero era Edoardo, l’orede, che avrebbe voluto trasformarla in una grande distesa di rose coltivate. Ma morì suicida. Quelli venuti dopo di lui hanno meno legami con il passato. Insomma, ragazzi, la favola è finita, facciamocene una ragione. Ma, se volete essere patrioti, in nome dei vecchi tempi, quando vorrete cambiare l’auto, prendete in considerazione il prossimo Suv Chrysler-Fiat, anche se sarà l’ultimo affronto fatto a Mirafiori e alla sua storia.